Dieci secondi con il diavolo (Ten seconds to hell) è una delle due avventure “europee” di Robert Aldrich (l’altra è Sodoma e Gomorra), ed è tratto da un romanzo (The Phoenix, di Lawrence Bachmann). Nonostante la bravura degli attori, non è tra i film più riusciti del regista. Vuoi per la produzione non propriamente ricchissima (il produttore europeo era Michael Carreras della Hammer Films), vuoi per la sceneggiatura (di Aldrich e del suo socio Teddi Sherman) un po’ scricchiolante nella parte sentimentale, ma soprattutto per il fatto che a Aldrich fu tolto il montaggio del film, ritenuto troppo lungo (due ore e dieci minuti).
In ogni modo, il film contiene un elemento cardine della filmografia aldrichiana: c’è un gruppo di sconfitti che, di fronte a una situazione estrema, deve elaborare un proprio sistema di regole. I protagonisti sono Jack Palance nei panni del disilluso Koertner e Jeff Chandler nella parte di Wirtz. Ma in un certo senso c’è un terzo protagonista – il Destino, con la D maiuscola – idealmente rappresentato dalle minacciose bombe inesplose. Se avete visto gli artificieri di The Hurt Locker, con le loro tute imbottite e i loro robot, non potrete non rabbrividire rendendovi conto che quella tra l’uomo e gli ordigni era una lotta a mani nude.
Ma la differenza tra il film di Aldrich e quello della Bigelow non è certo questa. La regista pone l’accento sulla “routine adrenalinica” che intossica i soldati come una droga. Gli sminatori in Iraq hanno scelto il loro pericoloso lavoro. Gli sminatori della Berlino postbellica sono sconfitti che cercano una chance in più nel loro “salario della paura”, proprio come i disperati del film di Clouzot.
In più, la pellicola della Bigelow – sceneggiata dal giornalista embedded Mark Boam – è asettica fino a rasentare l’ambiguità ideologica. Nella sua critica al film, Paolo Mereghetti lamenta “l’assenza di uno sguardo morale” (e per quel che vale, sono abbastanza d’accordo). In Aldrich l’approccio morale c’è, pur se un po’ imprigionato da un impianto drammatico non felicissimo. Significativi (e belli) i due rispettivi finali. In The Hurt Locker il protagonista rientra nel tunnel (metaforico) dell’adrenalina. In Dieci secondi con il diavolo, il sopravvissuto esce dal tunnel (reale) invaso dai fumi dell’esplosione, e solleva lo sguardo al cielo. Un finale insolitamente “ottimista” per Aldrich, che indica la speranza di una redenzione.
6 commenti:
Questo non è il commento al testo qui sopra ma al numero dieci di Caravan, non sapevo dove riportarlo, eventualmente lo copierò in un eventuale post futuro.
Ti volevo fare di nuovo i complimenti, hai creato un notevole livello di suspense... buoni tutti a crearlo nei primi numeri, tanto per guadagnare lettori, tu l'hai creato al terzultimo albetto! :-O
Ho sentore di qualcosa di angoscioso che incombe, ma aspetterò un altro mese!
Complimenti anche per i disegni, anche se non sono sufficientemente esperto per commentarli tecnicamente; carina l'ambientazione - cartoon delle barzellette!
Comunque sia, perdona la mia deformazione genetica (non professionale), ma se avete bisogno di un correttore di bozze io ci sono (ho trovato incongruenze anche oggi nei disegni :-P)!
Grazie, Massic. Se hai altri commenti sul numero 10 puoi scriverli in coda al post qua sopra, "La sai l'ultima?". Di "bloopers" nei nostri albi ce ne sono e ce ne saranno sempre, come ce ne sono in qualsiasi film e in qualsiasi romanzo. Non è detto che quello che rimane sugli albi sia un errore che ci è sfuggito. Può essere un errore "lasciato andare", nel senso che si dà la precedenza a quelle sviste che danneggiano la narrazione.
Per intenderci: preferiamo correggere un'espressione sbagliata o una inquadratura troppo ravvicinata che non fa capire la dinamica di una scena, piuttosto che modificare la posizione di un soprammobile su una mensola.
Poi, per carità, siamo umani, e può sempre capitare che lo svarione passi inosservato!
Correggo qui il nome dello sceneggiatore di "The Hurt Locker" (nonché di "Nella valle di Elah"). E' Mark Boal, non Boam.
Ma certo, infatti scherzavo (ma l'offerta rimane) :-)
Immagino non sia neanche facile modificare una tavola una volta finita... a meno che uno non la faccia in digitale. Di sicuro comunque ai fini della storia non cambia niente se uno sale in macchina dietro e nella vignetta dopo è davanti ;-)
E poi con qualche blooper sparso hanno ancora più sapore "umano"... mentre nelle scene, nei colpi di scena "quando volti pagina" si nota l'arte dello sceneggiatore (che tu innegabilmente hai) :-)
In digitale o no, la difficoltà è la stessa... si tratta sempre di ridisegnare! Un tempo la correzione era fatta proprio sull'originale, in due modi: il disegno poteva essere in parte biaccato, e in tal caso si ridisegnava sul "bianchetto"; oppure, se la correzione era estesa, si copriva la parte da correggere con un pezzo di carta e si disegnava su questo.
Da tempo gli originali cartacei non sono più toccati. La correzione è effettuata a parte, spesso direttamente in digitale.
In redazione si effettuano di solito gli interventi più leggeri (esempio: una camicia a quadri che per due vignette diventa a righe, una pistola che passa dalla mano destra alla sinistra, una libreria che cambia a un tratto il numero di scaffali, etc.).
Gli interventi più corposi (sulla fisionomia o sulla postura dei personaggi) sono normalmente affidati agli stessi disegnatori.
Questa è la regola generale. Ma ogni albo in realtà fa storia a sé. Ci sono letteralmente decine di tipologie di interventi redazionali, dovuti alle esigenze più disparate. La supervisione consiste anche nel decidere, spesso in tempi strettissimi, qual è l'errore che danneggia la narrazione e qual è il normale "blooper"che può essere lasciato passare.
Spero di riuscire a parlare - ormai mancano solo due mesi - anche della supervisione dei testi.
Sempre puntuale, preciso ed esauriente, grazie mille! :-)
Non sapevo che le correzioni minori venissero fatte "di seconda mano"!
Posta un commento