lunedì 30 novembre 2009

UNA BOTTA DI MALINCONIA



Now I been out in the desert,
just doin' my time
Searchin' through the dust,
lookin' for a sign
If there's a light up ahead
well brother I don't know
But I got this fever burnin' in my soul
Further on up the road
Further on up the road
Further on up the road
Further on up the road
One sunny morning
We’ll rise I know
And I’ll meet you further on up the road.

Bruce Springsteen, Further On Up the Road

Perdonatemi. Ho appena scritto la parola Fine sulla tavola 94 del numero 12 di Caravan. E la fine di ogni viaggio porta un po’ di malinconia.

venerdì 27 novembre 2009

CATTIVI ESEMPI...


...di informazione, si intende.

Ho la tentazione di gioire malignamente per questo titolo. Una volta tanto non sono i fumetti a traviare il mostro di turno. L'articolo è a questa pagina. Visti i dati d'ascolto di CSI, immaginate quanti mostri si annidano nell'ombra, pronti a colpire...

RACCONTARE I RACCONTI

ATTENZIONE: questo post contiene spoiler su Caravan n. 4, La storia di Carrie

Far dialogare un personaggio è un affare più complicato di quello che può sembrare. Ma è ancora più complicato farlo raccontare. In Caravan ci sono spesso racconti. E a volte anche racconti nel racconto (cioè si vede in flashback un personaggio che racconta, facendo scattare un altro flashback). Ogni volta che visualizziamo il racconto, e le parole del narratore passano dai balloon alla didascalia, dobbiamo affrontare diversi problemi.

Il primo è squisitamente grafico/narrativo: occorre decidere quali momenti del flashback visualizzare, e quando tornare al tempo presente. Chiaramente c’è (beh, dovrebbe esserci) un criterio logico per questi passaggi. Il secondo problema riguarda proprio la tecnica di scrittura. Quando un personaggio racconta è praticamente impossibile adottare un “parlato” realistico. Nella realtà quotidiana tutti siamo capaci di raccontare cosa ci è successo ieri mentre andavamo alle Poste o facevamo manovra per uscire dal parcheggio. Ma lo raccontiamo magari a spizzichi, cominciando una frase e poi mollandola a metà, interrompendoci per dire qualcosa che ci eravamo dimenticati di dire prima, e così via.

Nei fumetti, riprodurre questo linguaggio parlato non è possibile (se non in misura molto, molto ridotta). Ogni personaggio di un fumetto che racconta qualcosa, perciò, lo fa da narratore consumato. Usa quasi sempre il passato remoto, e lo fa sempre con una consecutio impeccabile.

Nel numero 4, La storia di Carrie, Massimo racconta a Stephanie di come si era autoconvinto (a torto) che Adrian Richards non costituisse una minaccia.

Se Massimo fosse una persona reale, probabilmente liquiderebbe l’incidente in poche parole, come farebbe chiunque di noi: “Quella sera non ho chiuso bene la porta del garage ed è entrato il gatto dei Leblanc. Ha fatto rumore e mi sono spaventato, perché pensavo che fosse Adrian Richards che veniva a menarmi”.

Invece Massimo introduce il suo racconto da narratore consumato: “Ti racconto una cosa… una cosa che mi è successa una sera, prima dell’incendio dell’auto”. 
Equivale al classico “c’era una volta…”. Poi Massimo dispone il setting della sua storia, spiegando a Stephanie (e contemporaneamente al lettore) perché era solo in casa: “Davide era al concerto con Clyde e tu eri al cinema con Ellen, ti ricordi?”

Stabilita la premessa, scatta la visualizzazione del flashback, che comincia in medias res da una telefonata misteriosa, muta. Massimo racconta poi di Chip che ringhiava. E poi racconta di essere uscito, di avere gridato, di avere impugnato un rastrello per non trovarsi indifeso davanti a un’eventuale aggressione. Insomma, “costruisce” il suo racconto scena per scena. E ovviamente ritarda la rivelazione finale, al punto che Stephanie sbotta: “Non raccontarmelo come se fosse un film di Hitchcock!”

L’uscita di Stephanie qui ha due motivazioni. Una è puramente narrativa, di verosimiglianza della scena (Massimo non si decide a rivelare cos’è successo), e una “metanarrativa”, se vogliamo. È una strizzata d’occhio al lettore, che accetta l’artificio, e che nel finale del racconto di Massimo riconoscerà un topos cinematografico: la tipica “scena del gatto” (canonizzata, credo, in Alien e ripresa poi in innumerevoli thriller).

L’uso del passato prossimo nella rievocazione di Massimo – anche perché ci si riferisce a un evento recente – conferisce una certa fluidità al racconto. E il fatto che l’aneddoto sia semplice aiuta a tenere il tutto nei binari di una conversazione “naturale” (pur con una costruzione “thrilling” dell’aneddoto, che in sé non è molto verosimile).

Più avanti, invece, comincia il lungo flashback sull’infanzia di Carrie. Jolene racconta a Davide, e col suo racconto introduce il racconto di sua zia June. E qui non c’erano alternative. Il racconto si riferisce a fatti di molti anni prima, e ho dovuto usare il passato remoto. Inevitabilmente, il racconto assume un tono ben poco colloquiale, sa di “scritto”. Per attutire questo effetto ho cercato di usare un linguaggio quanto più possibile semplice. June non è una letterata, e sta parlando con sua nipote, non a una conferenza. Quindi: frasi brevi, niente aggettivi davanti al sostantivo, e soprattutto niente proposizioni incidentali (cioè niente obbrobri del tipo: “e il risultato fu che, dal momento che non poteva più picchiare la mamma, papà cominciò a picchiare Carrie”.

D’altro canto, usare un linguaggio troppo colloquiale nel racconto di June sarebbe andato a discapito dell’atmosfera del racconto. Il lettore qui non deve apprezzare l’eventuale slang del personaggio, ma immergersi in una storia molto più lunga e articolata della “scena del gatto”. Proprio per questo il racconto di June doveva essere chiaro e sintetico, e trasportare il lettore da una vignetta all’altra in maniera fluida (in alcune vignette, visto che il disegno di Maresta raccontava con efficacia, ho tagliato completamente le didascalie).

Alla fine sono abbastanza soddisfatto della storia di Carrie. Mi pare – ma ai lettori l’ultima parola – di avere raggiunto un certo equilibrio tra le esigenze della verosimiglianza e quelle della narrazione.

In altri albi, come il numero 8, che leggerete tra due mesi, i flashback sono più brevi e la “compressione” del racconto nelle didascalie è maggiore. In questo caso è inevitabile che il tono del racconto assomigli più a una forma scritta che a una forma parlata.

È anche vero che nel fumetto non si fa caso più di tanto a queste cose. Si dà per scontato che la voce del personaggio che racconta e quella dell’autore diventino un tutt’uno. Io non mi sono ancora rassegnato a questo. E anche se dubito che una soluzione al problema esista, continuo a cercarla.

domenica 22 novembre 2009

BRUMOSI POMERIGGI INVERNALI

Certe volte, in un brumoso pomeriggio d’inverno, si accende la tivù e si guarda il primo film che capita, quello che passa il convento. Qualche giorno fa Sky ha passato The Hitcher, il remake. Purtroppo.

Per chi non l’avesse visto, il The Hitcher (lett: “L’autostoppista”) originale è uno dei più bei thriller degli anni ottanta, scritto da Eric Red per la regia di Robert Harmon e interpretato da Rutger Hauer, C. Thomas Howell e Jennifer Jason Leigh. La trama è semplice: il giovane Jim (Howell) deve portare un’auto in vendita da uno stato all’altro, e in una notte di pioggia raccoglie un autostoppista (Hauer). Mal gliene incoglie, perché l’uomo – che si presenta col nome di John Ryder – è uno psicopatico assassino, che ha già ucciso e ucciderà ancora. E getterà la colpa sul ragazzo, che si troverà braccato dalla polizia. Solo la cameriera di un diner (Jason Leigh) si offrirà di aiutarlo. Ma Ryder sta giocando con Jim come il gatto col topo. E per uscire dall’incubo il ragazzo deve pagare un prezzo molto alto…

Il remake è del 2007, diretto da Dave Meyers e scritto da Jake Wade Wall ed Eric Bernt. Mi sono segnato i nomi, così in futuro eviterò film scritti da costoro. Anche se il nome di Michael Bay nella produzione avrebbe già dovuto indurmi in sospetto. The Hitcher non è nemmeno un remake: è un ricalco dell’originale, con alcune inquadrature letteralmente clonate dal film di Harmon. E lasciamo perdere i tocchi “alla Michael Bay”, con una sequenza fracassona di auto incidentate a suon di rock, o il killer che si allontana dall’esplosione al ralenti: dopo la fulminante Cool guys don’t look at explosions di Will Ferrell non è possibile trattenersi dal ridere di fronte a banalità del genere.


Oppressi dai sensi di colpa, Bay, Meyers e compagnia devono essersi spremuti le meningi per differenziare in qualche modo il loro ricalco dall’originale. E cosa fanno? Evidenziano lo splatter dove si può, per cominciare. Mostrare quello che il film originale non mostrava (ricordate la scena del camion nel parcheggio del motel? Ecco, sì, quella). Ma il colpo di genio dei ricalcatori è un altro: inserire la coppia fin dall’inizio. Nel vecchio film Jim incontra casualmente Nash, la ragazza, dopo mezz’ora. Nel film di Meyers, Jim (Zachary Knighton) e Grace (Sophia Bush) sono due fidanzatini. Lui dà il passaggio al losco autostoppista (Sean Bean), anche se lei, voce della ragione, gli implora di non farlo. Senza spoilerare troppo, vi dico che il succo della faccenda è l’inversione dei ruoli fra il ragazzo e la ragazza. Da un certo punto in poi è Grace la protagonista, fino alla fine.

È un cambiamento netto rispetto al film dell’86? Certo. Un cambiamento che vanifica completamente il senso originale della storia.

The Hitcher
– quello vero – si apre come la più classica delle favole gotiche, con la trasgressione di un divieto. “Mia madre mi dice sempre di non farlo”, scherza Jim quando prende a bordo Ryder. E Ryder è comparso poco dopo che Jim ha rischiato di addormentarsi. O forse – spingiamo l’interpretazione un po’ più in là – Jim si è realmente addormentato, materializzando Ryder dal più oscuro degli incubi (più avanti vedremo che la polizia non riuscirà mai a identificare l’assassino). Dopodiché, la storia diventa una faccenda tutta maschile. C’è in ballo la virilità. Non sei un vero uomo se non mi ammazzi, dice in sostanza John Ryder al malcapitato Jim. Ryder strapazza Jim anche fisicamente, e c’è un sottinteso (omo)sessuale, anche se mai “gridato”, in diverse scene (come quella di Ryder che prende il posto di Jim sul letto del motel, o nel faccia a faccia che si conclude con uno sputo).

Il remake si apre con lo spiaccicamento di una zanzara sul parabrezza dell’auto dei ragazzi. Possiamo fingere di non accorgerci che questo è l’orrido foreshadowing che dovrebbe anticipare il succo del film, okay. Ma non si può ignorare che Grace diventa l’ennesima tough chick con la pistola e con gli short minuscoli, Lara Croft docet. E allora alla fine il senso qual è? Nella migliore delle ipotesi, uno statement femminista in clamoroso ritardo, a più di vent’anni dalla Clarice del Silenzio degli innocenti e dalla Ripley di Aliens. Cose viste e straviste, insomma. Nell’ipotesi peggiore non c’è nessun senso: c’è solo la riproposizione banale dell’eroina da teen movie, che si salva soltanto perché è cavalleresco – da parte degli sceneggiatori – salvare la ragazza e far contente le giovanissime spettatrici. Ovviamente, a condizione che l’eroina mostri le cosce a beneficio dei maschietti.

sabato 21 novembre 2009

TEMPO, TEMPO, TEMPO...

Time, time, time, see what's become of me
while I looked around for my possibilities
I was so hard to please
but look around, leaves are brown now
and the sky is a hazy shade of winter.

(Paul Simon, A hazy shade of winter)


Quando rileggo La Storia del West non posso fare a meno di chiedermi come facessero gli autori a documentarsi. All'epoca (gli anni a cavallo tra i decenni degli anni sessanta e dei settanta) non c'era internet. Certi libri li trovavi solo in librerie ben fornite e nelle biblioteche, a meno di non avere un colpo di fortuna rovistando nelle bancarelle dei mercatini. Se scrivere materialmente un fumetto richiedeva il suo tempo, la ricerca della documentazione ne richiedeva molto di più.

Un luogo comune dice che oggi tutto è "a portata di click", ma il risparmio di tempo è molto relativo. E sarà anche vero che "su internet si trova tutto". Il problema è che devi cercarlo. Scrivendo Caravan, non mi sono reso conto di quanto tempo richiedessero certe ricerche fino a quando non ho scritto il numero 6.

A volte, certo, la memoria ti soccorre: per esempio, ricordavo perfettamente che Daryl Hall e John Oates, oggi pressoché dimenticati in Italia, all'epoca erano in cima alla top ten negli USA (forse qualcuno ricorda Man Eater, riproposta pochi anni fa da Nelly Furtado: "oh oh here she comes, watch out boy, she'll chew you up"...). Perfettamente normale, quindi, che una Stephanie ventenne ne andasse matta.


E poi è stato semplice verificare che La zona morta di Stephen King (che Bertrand legge in francese, con il titolo L'accident) è del 1979. Quindi è verosimile una ristampa posteriore all'uscita del film di Cronenberg, che è del 1983. Mi spiace un po' che nessuno abbia notato che Bertrand sceglie accuratamente le sue letture. Anche il protagonista della Zona Morta, infatti, deve uccidere un politico.

La sveglia di Lupo Alberto è un anacronismo del tutto volontario. Nel 1985 Lupo Alberto aveva già la sua pubblicazione (nel formato "orizzontale" che conosciamo), ma il merchandising fiorì intorno al 1988, qualche anno più tardi della nostra storia.

Fin qui tutto bene. Il resto, invece, è stato un po' complicato. Perché, per quanto affidabile sia Google e ti porti dappertutto ("anche dove non volevi", cantano Elio e le Storie Tese), nemmeno Google è in grado di dirti in un istante quanto costava un caffè nel 1985 (400 lire); oppure se nel 1985 si utilizzavano già le schede telefoniche (risposta: le prime schede telefoniche furono realizzate nel 1976, e cominciarono a diffondersi a metà degli anni ottanta). E non solo: dato che il disegnatore deve disegnare, bisogna vedere com'erano fatti all'epoca i telefoni pubblici (ricordandoci che la SIP era SIP, e non ancora Telecom).


Scoprire o ri-scoprire tutto ciò, visionando decine di siti (spesso per scoprire che l'autore dell'articolo ne sapeva meno di me), ha richiesto il suo tempo. Così come studiare sulla cartina e poi fotografare le strade attraversate da Massimo nella sua corsa disperata. I fiorentini avranno probabilmente riconosciuto il famoso caffè Paszkowski in piazza della Repubblica. Pochi, magari, avranno riconosciuto il tabernacolo con la Madonna con Bambino, che fa parte della ex chiesa di San Pancrazio in via della Spada. Quanto a Via Sant'Onofrio, naturalmente esiste davvero, anche se non c'è nessun negozio di elettrodomestici.


Se America, America mi ha portato via un bel po' di tempo per la documentazione, il numero 7, che leggerete il mese prossimo, è stato altrettanto impegnativo.

Confesso di non sapere molto delle tribù indiane, se non quello che ho visto nei film western. Ecco perché decidere a quale tribù doveva appartenere il vecchio indiano protagonista di Al centro del nulla è stato già problematico. Non ricordo più come e perché alla fine ho optato per un Cherokee. Il passo seguente è stato dargli un nome (ne ho cambiati almeno tre, cercandone uno che non suonasse buffo all'orecchio italiano), e poi "battezzare" tutta la sua famiglia.

Ma almeno un elenco di nomi si scorre in fretta. Scegliere la leggenda che il vecchio Adahy doveva raccontare è stato un lavoro più lungo, anche se sono particolarmente soddisfatto del risultato: la favola della nascita dell'autunno per me è bellissima (spero che sarete d'accordo con me quando la leggerete), e mi ha fornito anche lo spunto per il drammatico finale della storia.

Perfino scegliere una semplice battuta ha richiesto il suo tempo. Confesso che fino ad allora non mi ero mai posto il problema di cosa facesse ridere i nativi americani. Ma il problema, ovviamente, non era tanto trovare una battuta divertente per loro: era trovare una battuta che facesse perlomeno sorridere anche il lettore italiano (e che fosse appunto una battuta, non una barzelletta che avrebbe riempito diverse vignette).

Search dopo search, link dopo link, pagina dopo pagina, il tempo è scivolato via inesorabile, facendomi accumulare un ritardo mostruoso sul numero 8. Che aveva un plot molto semplice e, nelle mie intenzioni, doveva essere un lavoro veloce... fino a quando non mi è venuta l'idea di inserire nella trama il racconto di due fatti storici. Di cui, ovviamente, riparleremo a tempo debito. Già.

Tempo, tempo, tempo...

giovedì 19 novembre 2009

IL TERZO UOMO



Pochi lettori ci pensano, ma ogni mese c’è una terza firma su Caravan, oltre a quella di chi scrive e chi disegna. Il nostro terzo uomo è l’autore dei riassunti che trovate a pagina 2 e della rubrica Sulla strada. E’ Gianmaria Contro.

Gianmaria è una specie di motore di ricerca umano. Dategli una parola chiave e lui troverà film, libri, serie tivù di cui voi vi eravate dimenticati. Questa sua capacità si è rivelata particolarmente preziosa per la rubrica di Caravan: non essendo una classica serie avventurosa, Caravan racchiude spunti narrativi che vanno aldilà del “genere”. E Gianmaria riesce a trovare assonanze, rimandi e riferimenti tra film diversissimi, individuando percorsi tematici che a volte stupiscono anche il sottoscritto.

Avrei voluto presentarvi Gianmaria mettendo il link alla sua scheda nel sito della Bonelli, ma il “terzo uomo”, si sa, opera nell’ombra, e la sua scheda nel sito Bonelli non c’è.

Poco male, comunque. Eccola qui:

Gianmaria Contro (1968) esordisce in editoria tra i redattori de La Rivisteria – periodico di informazione e dibattito sul mercato del libro. Nel 1998 realizza per Feltrinelli il saggio Il mercato del terrore – mostri e maestri dell’horror. Dal 2003 al 2007 è membro permanente della redazione del mensile HorrorMania e autore per la rivista-gemella ThrillerMania, entrambe pubblicazioni delle Edizioni Master. Collaboratore occasionale di varie testate e case editrici (GQ, Gargoyle o Horror.it, per ricordarne qualcuna), dal 2002 lavora stabilmente presso la Sergio Bonelli Editore, per la quale realizza anche brevi saggi e rubriche per gli Almanacchi della Paura, della Fantascienza, , dell’Avventura, del Giallo e del Mistero, nonché interventi su Speciale Tex, Dylan Dog Superbook, Romanzi a Fumetti, Nathan Never Granderistampa… e Caravan, naturalmente.

lunedì 16 novembre 2009

DISTR(ib)UZIONE DI UNA SERIE

Ancora una volta mi arrivano segnalazioni di lettori che hanno difficoltà a trovare Caravan (ma la stessa cosa succede per Greystorm). E in questo caso particolare non a Molfetta, ma a Milano (zona Sempione, nientemeno).

Premesso che fino a un certo punto il problema è fisiologico (le mini-serie non hanno certo le tirature di Tex e Dylan Dog), purtroppo è vero che ci sono problemi con la distribuzione.

Mi dispiace. Riguardo all'organizzazione della distribuzione sono impotente quanto voi. L'unica cosa che posso suggerirvi è di cercare di acquistare l'albo sempre nella stessa edicola, e di fare pressione sull'edicolante perché questi a sua volta faccia pressione sul distributore.

In ogni modo gli arretrati sono sempre disponibili presso la casa editrice, e si possono ordinare on line (trovate il link nella colonna a destra).

venerdì 13 novembre 2009

DICIOTT'ANNI FA...

...la mia prima intervista su Fumo di China, in occasione dell'uscita di Nathan Never. Sul numero 175, ora in edicola, la mia seconda intervista (e la prima da "single", senza Serra e Vigna). Beh, non potete accusarmi di imperversare sulla carta come sul web.

Stavolta rispondo alle domande di Stefano Priarone. Si parla di Caravan e di altre cose (inevitabilmente, anche dei nerd del fumetto. Ormai sono un esperto dell'argomento :-)

Mi rendo conto del ritardo della segnalazione, ma per fortuna Michele Benevento, sul suo blog, è stato più tempista di me. Nell'articolo potete ammirare in anteprima anche alcune delle sue tavole per il numero 9 di Caravan.

giovedì 12 novembre 2009

GOD BLESS AMERICA


POST EDITATO

ATTENZIONE: QUESTO POST CONTIENE SPOILER SU CARAVAN n. 6, AMERICA, AMERICA

America, America
doveva intitolarsi God Bless America (“Dio benedica l’America”); God Bless America è l’incipit dell'omonima canzone di Irving Berlin, così famosa da essere diventata una specie di inno nazionale "parallelo" a quello ufficiale, The Star Spangled Banner. Il titolo di questo albo (scartato all’ultimo momento per motivi che non dovete chiedere a me) aveva una doppia valenza nel rapporto con la storia. Perché sicuramente per Massimo Donati una frase del genere era da intendersi alla lettera, e per suo fratello Carlo suonava ironica.

America, America è il titolo originale di un bellissimo film di Elia Kazan, diventato in italiano Il ribelle dell’Anatolia: racconta la storia del giovane Stavros, che lascia la Turchia in subbuglio per le rivendicazioni delle minoranze greche e armene e si imbarca per raggiungere gli Stati Uniti. Kazan vi riversò molte esperienze direttamente o indirettamente autobiografiche.

Anche il sesto albo di Caravan contiene alcuni spunti autobiografici (certamente meno drammatici di quelli di Kazan). In teoria era facile da scrivere, nella pratica si è rivelato l’albo più complicato, dal momento che contiene scene ambientate in quattro decenni diversi.

Il grosso della storia si svolge a cavallo tra due anni, il 1984 e il 1985. Venticinque anni fa. Vi faccio qualche domanda a bruciapelo, e ditemi in tutta onestà se avreste saputo rispondere senza avere letto l’albo.

1) La Telecom era già Telecom o era ancora SIP?

2) Le cabine telefoniche funzionavano ancora con gettoni e monete, oppure c’erano già le schede magnetiche?

3) C’erano già i treni Intercity?

4) Quanto costava un caffè?

5) Quali erano i dischi in cima alla top ten?

È sorprendente constatare quanto poco ricordiamo del nostro passato prossimo. O forse no, pensando a com’è cambiata rapidamente la nostra vita, e in pochi anni.

Parlando di altri decenni: la scena che va da pagina 35 a pagina 38 è reale, anche se ho cambiato il luogo e i protagonisti. Nella realtà i due bambini erano due bambine (mia madre e mia zia), e la stazione ferroviaria era quella di Cagliari. Ma verosimilmente scene del genere, nel dopoguerra, capitavano un po’ dovunque. Come a volte succede nelle mie storie, Antonio Serra fa un ruolo cameo nella parte del soldato Greenhouse (“serra”), quello che legge i fumetti.

A proposito di fumetti, nell’albo compaiono due grandi protagonisti degli anni ottanta: Lupo Alberto e Zanardi. Ma scommetto che questi li avevate notati. Se non avete almeno la mia età, invece, vi sarà sfuggita la presenza di un grande protagonista degli anni sessanta: Ercolino Sempre in Piedi, il pupazzo gonfiabile che la Galbani dava in omaggio con i punti dei formaggini. Tra l’altro, lo avevo già citato su Dylan Dog, sia pure sotto mentite spoglie, quelle del cinesino Chu Hueng Gum (la storia era Il feroce Takurr, dedicata al fenomeno del collezionismo).

Le citazioni musicali sono evidenti, quindi non c’è bisogno di parlarne. Forse vale la pena di ricordare che i Clash non sono finiti casualmente sulla maglietta del terrorista Bertrand. Il primo giugno 1980, suonando in Piazza Maggiore a Bologna, il leader del gruppo Joe Strummer indossò una T–shirt con la stella a cinque punte e la scritta Brigade (sic) Rosse. L’episodio ha assunto contorni quasi leggendari, ma Strummer quella maglietta l’aveva eccome. Si vede anche qui (in un concerto londinese del 1978) al minuto 2:34. In seguito Strummer, scomparso nel 2002, definì quell’episodio come uno dei suoi numerosi “atti di guerra adolescenziali”.

Infine vorrei parlare di un’altra “citazione” di America, America, quella del terrorismo.

Anche qui, forse, la memoria ci gioca qualche scherzetto. Soprattutto se in quegli anni eravamo ragazzini, ricordiamo che “gli anni di piombo” erano gli anni settanta. Ma in realtà per quasi tutto il decennio degli anni ottanta il terrorismo continuò a uccidere. Basta solo ricordare come comincia il decennio dei “paninari” e dell’ “edonismo reaganiano”: nel 1980 – oltre a un gran numero di poliziotti e carabinieri – sono uccisi il magistrato Vittorio Bachelet, il generale Enrico Galvaligi, il giornalista Walter Tobagi. È anche l’anno della strage di Bologna: 85 morti. Negli anni seguenti è ucciso il dirigente della Montedison Giuseppe Taliercio, il vicequestore di Napoli Antonio Ammaturo, il docente universitario Ezio Tarantelli. Nel 1986 il terrorismo colpisce anche a Firenze, quando le Brigate Rosse uccidono Lando Conti, che era stato sindaco della città fino all’anno precedente.

E proprio ricordandomi dell’omicidio di Conti mi è venuta l’idea di invischiare Massimo e suo fratello in una storia di terrorismo.

A differenza del Cantoni di Caravan, Lando Conti, esponente del Partito Repubblicano e membro della massoneria, non ebbe direttamente a che fare con le basi militari americane in Toscana. È però vero che entrò nel mirino delle Brigate Rosse per le sue posizioni “filoatlantiche e sioniste” (secondo i terroristi, ovviamente). Inoltre Conti possedeva una piccola quota della SMA, un’azienda che produceva materiali anche per usi militari. Tanto bastava per bollarlo come nemico del popolo.

Un pomeriggio si stava recando in auto, da solo, a una seduta del consiglio comunale (non più sindaco, era comunque consigliere), quando una Uno rossa lo affiancò. Dal finestrino, un killer gli sparò tredici colpi con la stessa micidiale Skorpion che aveva ucciso a Roma Ezio Tarantelli e il senatore DC Roberto Ruffilli. Era il 10 febbraio 1986. L’inchiesta su quel delitto è stata archiviata nel febbraio di quest’anno, lasciando ancora aperti parecchi interrogativi sulla composizione del commando che uccise Conti.

Per chiudere, qua sotto c'è quella che per me è la versione più struggente di God Bless America mai sentita. E per lasciarci su una nota più amena, permettetemi di mandare un saluto affettuoso a Cristiana, Viviana e Francesca. Ancora grazie dell’ospitalità e dei caffè. Nonostante tutto, erano bei tempi.

A META' DEL VIAGGIO

Due parole con un'intervista "fatta in casa", sul sito della Sergio Bonelli Editore.

sabato 7 novembre 2009

RINNEGATO, NON TI CONOSCIAMO PIU'!



Dopo l'assegnazione dei premi Gran Guinigi a Lucca Comics & Games, i giornali sardi l’Unione Sarda e La Nuova Sardegna rilevano con legittimo orgoglio che un sardo si fa onore sulla ribalta nazionale.


giovedì 5 novembre 2009

OPERE DI UN CERTO PESO

Rilancio un interrogativo interessante dal blog di Claudio Nader.

Aggiungo qualche considerazione: “nella lunga prefazione di Zanardi (edito da Baldini & Castoldi, ndr) due pagine piene - ben 44 righe – vanno via solo per spiegare con quali criteri sono state editate le storie presenti nel volume. All'interno, 24 pagine presentano schizzi inediti, brani di interviste, commenti, note. E poi ci sono le storie, ovviamente. In bianco e nero e a colori. Formato del volume: 23 x 33 cm. Per darvi un'idea, circa un centimetro più largo e tre centimetri più alto dei volumi di Asterix, che proprio piccoli non sono. E la carta è ottima, sia chiaro. Qui si fa dell’arte, mica cavoli. Ma attenzione: le pagine sono 176. Il che significa che il volume pesa un chilo tondo tondo. (Un solido cartonato di Asterix non arriva a mezzo chilo, per intenderci). Se, come me, siete di quelli che leggono la notte prima di addormentarsi non avete speranze di maneggiare questo malloppo standovene comodamente sdraiati. (Non parliamo poi dei poveri mentecatti che leggono in metropolitana... non sanno che l'arte esige sacrifici?)”

Scrivevo queste righe sei anni fa, per un editoriale nel mio sito. Qualche giorno fa, a Lucca, ho comprato l’edizione italiana di due storie famose che avevo solo in edizione originale, The Killing Joke di Moore & Bolland, e Batman: Year One di Miller & Mazzucchelli. Entrambe le storie erano state pubblicate in formato comic book. Le attuali edizioni hanno una misura più grande dei classici cartonati francesi. Perché?

Probabilmente, per diverse ragioni. La prima la trovo fastidiosa, la seconda un po’ inquietante. La prima ragione è l’aggressiva politica editoriale della Planeta De Agostini, che si propone di seppellire materialmente la concorrenza della Panini–Marvel occupando tutto lo spazio disponibile sugli scaffali. Insomma, una gara a chi ce l’ha più grosso (il volume). E dato che una major dell’editoria può sobbarcarsi grosse spese di stampa mantenendo i volumi a prezzi popolari, in questa gara le piccole case editrici fatalmente soccombono e spariscono dagli scaffali.

La seconda ragione, quella dietro la elefantiaca edizione di Zanardi (che però è niente rispetto a quella, monumentale, della Ballata del mare salato o all’edizione de–luxe di Watchmen) è che si tende a concepire il libro come oggetto di lusso. Ma perché un libro dev’essere un oggetto di lusso, tenuto conto che questi volumi non sono proprio best–seller, e i prezzi sono alti?

Mi si obietterà che non c’è niente di male a offrire di più a chi è disposto a spendere di più. E dopotutto le storie di Zanardi e quelle di Corto Maltese sono perennemente in ristampa anche a prezzi abbordabili. E in effetti no, non c’è niente di male a offrire a un prezzo maggiore una carta migliore e una grafica più elegante.

Tuttavia credo che ci sia un limite anche all’edizione di lusso. Passato quel limite – quello della semplice “usabilità” del volume, che in quelle dimensioni richiede un leggìo – si esce dal campo dell’editoria e si entra in quello del feticismo: il libro come oggetto da adorare e/o esibire.

In un momento in cui c’è più che mai necessità di diffondere cultura, sembra che si sia tornati indietro agli anni sessanta, quando i nouveaux riches del boom economico sceglievano i libri dal colore della copertina, per intonarli alle pareti del salotto.

Mi sembra una regressione inquietante.

lunedì 2 novembre 2009

I FUMI DELLE LUCCHE

Pare che sia stata una bella Lucca. Roberto Recchioni, per esempio, ne è rimasto entusiasta.

Per il mondo del fumetto Lucca è una specie di sbornia collettiva. Una sorta di carnevale in cui dentro i tendoni (e nei bar adiacenti) si celebrano i riti del Fumetto. Gli incontri col pubblico, la presentazione dei portfolio, le interviste, gli annunci di nuovi progetti.

Ma, come per l'alcol, i fumi delle Lucche passano e i problemi del fumetto restano. Se a Lucca c’è stato qualche evento significativo che ha smosso le acque stagnanti del fumetto italiano, io non me ne sono accorto.

Un tempo la fiera di Lucca si chiamava Il Salone Internazionale dei Comics. Adesso è Lucca Comics and Games. Un tempo la premiazione degli autori avveniva al sabato sera, ed era considerata il clou della manifestazione. Ora viene sbrigata il giovedì, il primo giorno della manifestazione, per lasciare spazio alle cose che contano. Quali siano, non lo so. Forse il torneo di cosplay.

In una strada del centro ho incrociato un gruppetto di cosplayers, e ho sentito uno di loro bisbigliare alle mie spalle: – Guarda quello, è vestito da autore di fumetti. –

E un altro ha detto: - E' vero. Ma sai che ne ho già visti tre o quattro?

domenica 1 novembre 2009

LUCCA COMICS & GAMES 2009


POST EDITATO

"Per avere introdotto, con l'ideazione della miniserie Caravan, numerose e rilevanti novità sia di carattere formale che di carattere narrativo all'interno della produzione della Sergio Bonelli Editore, valorizzando al massimo l'umanità dei personaggi, scrivendo dialoghi realistici che rifuggono da clichés e stereotipi e, infine, rinunciando a concentrare l'attenzione su un solo protagonista per dare vita a una vicenda realmente e credibilmente corale, il Premio Gran Guinigi per il miglior sceneggiatore viene assegnato a Michele Medda."

Curiosamente, le motivazioni dei premi di Lucca Comics and Games 2009 agli autori (compresi Pasquale Frisenda come miglior disegnatore e Joann Sfar come miglior autore unico) non sono state pubblicate sul sito della manifestazione (almeno fino a questo momento). Ringrazio Diego Cajelli per avermi passato quella relativa al mio premio, e quella del premio a Pasquale Frisenda quale miglior disegnatore; la motivazione è "per avere offerto, disegnando le 224 tavole di Patagonia una prova di rara maturità grafica, dimostrandosi abile tanto nel realizzare sequenze d’azione ed epiche scene di massa quanto nell’esaltare l’espressività dei personaggi, e per avere in questo modo consolidato il suo status di maestro del bianco e nero ormai in possesso di una riconoscibile cifra stilistica pur seguitando a muoversi nell’aureo solco che va da Milton Caniff e Alex Toth fino a Ivo Milazzo".

La foto qua sopra è di Fabrizio Salvetti, e fa parte dell'album dell'organizzazione, visibile su flickr a questa pagina.

Non chiedetemi perché, pur essendo il premio assegnato per il lavoro su Caravan, durante la consegna del premio è stata proiettata l'immagine di una copertina di Nathan Never.

Ho ringraziato dal palco, e lo rifaccio qui, tre persone senza le quali Caravan non sarebbe mai uscito: Sergio Bonelli, il mio supervisore Mauro Marcheselli, e la mia prima stella a destra: Lucia.