ATTENZIONE: questo post contiene spoiler su Caravan n. 4, La storia di Carrie
Far dialogare un personaggio è un affare più complicato di quello che può sembrare. Ma è ancora più complicato farlo raccontare. In Caravan ci sono spesso racconti. E a volte anche racconti nel racconto (cioè si vede in flashback un personaggio che racconta, facendo scattare un altro flashback). Ogni volta che visualizziamo il racconto, e le parole del narratore passano dai balloon alla didascalia, dobbiamo affrontare diversi problemi.
Il primo è squisitamente grafico/narrativo: occorre decidere quali momenti del flashback visualizzare, e quando tornare al tempo presente. Chiaramente c’è (beh, dovrebbe esserci) un criterio logico per questi passaggi. Il secondo problema riguarda proprio la tecnica di scrittura. Quando un personaggio racconta è praticamente impossibile adottare un “parlato” realistico. Nella realtà quotidiana tutti siamo capaci di raccontare cosa ci è successo ieri mentre andavamo alle Poste o facevamo manovra per uscire dal parcheggio. Ma lo raccontiamo magari a spizzichi, cominciando una frase e poi mollandola a metà, interrompendoci per dire qualcosa che ci eravamo dimenticati di dire prima, e così via.
Nei fumetti, riprodurre questo linguaggio parlato non è possibile (se non in misura molto, molto ridotta). Ogni personaggio di un fumetto che racconta qualcosa, perciò, lo fa da narratore consumato. Usa quasi sempre il passato remoto, e lo fa sempre con una consecutio impeccabile.
Nel numero 4, La storia di Carrie, Massimo racconta a Stephanie di come si era autoconvinto (a torto) che Adrian Richards non costituisse una minaccia.
Se Massimo fosse una persona reale, probabilmente liquiderebbe l’incidente in poche parole, come farebbe chiunque di noi: “Quella sera non ho chiuso bene la porta del garage ed è entrato il gatto dei Leblanc. Ha fatto rumore e mi sono spaventato, perché pensavo che fosse Adrian Richards che veniva a menarmi”.
Invece Massimo introduce il suo racconto da narratore consumato: “Ti racconto una cosa… una cosa che mi è successa una sera, prima dell’incendio dell’auto”.
Equivale al classico “c’era una volta…”. Poi Massimo dispone il setting della sua storia, spiegando a Stephanie (e contemporaneamente al lettore) perché era solo in casa: “Davide era al concerto con Clyde e tu eri al cinema con Ellen, ti ricordi?”
Stabilita la premessa, scatta la visualizzazione del flashback, che comincia in medias res da una telefonata misteriosa, muta. Massimo racconta poi di Chip che ringhiava. E poi racconta di essere uscito, di avere gridato, di avere impugnato un rastrello per non trovarsi indifeso davanti a un’eventuale aggressione. Insomma, “costruisce” il suo racconto scena per scena. E ovviamente ritarda la rivelazione finale, al punto che Stephanie sbotta: “Non raccontarmelo come se fosse un film di Hitchcock!”
L’uscita di Stephanie qui ha due motivazioni. Una è puramente narrativa, di verosimiglianza della scena (Massimo non si decide a rivelare cos’è successo), e una “metanarrativa”, se vogliamo. È una strizzata d’occhio al lettore, che accetta l’artificio, e che nel finale del racconto di Massimo riconoscerà un topos cinematografico: la tipica “scena del gatto” (canonizzata, credo, in Alien e ripresa poi in innumerevoli thriller).
L’uso del passato prossimo nella rievocazione di Massimo – anche perché ci si riferisce a un evento recente – conferisce una certa fluidità al racconto. E il fatto che l’aneddoto sia semplice aiuta a tenere il tutto nei binari di una conversazione “naturale” (pur con una costruzione “thrilling” dell’aneddoto, che in sé non è molto verosimile).
Più avanti, invece, comincia il lungo flashback sull’infanzia di Carrie. Jolene racconta a Davide, e col suo racconto introduce il racconto di sua zia June. E qui non c’erano alternative. Il racconto si riferisce a fatti di molti anni prima, e ho dovuto usare il passato remoto. Inevitabilmente, il racconto assume un tono ben poco colloquiale, sa di “scritto”. Per attutire questo effetto ho cercato di usare un linguaggio quanto più possibile semplice. June non è una letterata, e sta parlando con sua nipote, non a una conferenza. Quindi: frasi brevi, niente aggettivi davanti al sostantivo, e soprattutto niente proposizioni incidentali (cioè niente obbrobri del tipo: “e il risultato fu che, dal momento che non poteva più picchiare la mamma, papà cominciò a picchiare Carrie”.
D’altro canto, usare un linguaggio troppo colloquiale nel racconto di June sarebbe andato a discapito dell’atmosfera del racconto. Il lettore qui non deve apprezzare l’eventuale slang del personaggio, ma immergersi in una storia molto più lunga e articolata della “scena del gatto”. Proprio per questo il racconto di June doveva essere chiaro e sintetico, e trasportare il lettore da una vignetta all’altra in maniera fluida (in alcune vignette, visto che il disegno di Maresta raccontava con efficacia, ho tagliato completamente le didascalie).
Alla fine sono abbastanza soddisfatto della storia di Carrie. Mi pare – ma ai lettori l’ultima parola – di avere raggiunto un certo equilibrio tra le esigenze della verosimiglianza e quelle della narrazione.
In altri albi, come il numero 8, che leggerete tra due mesi, i flashback sono più brevi e la “compressione” del racconto nelle didascalie è maggiore. In questo caso è inevitabile che il tono del racconto assomigli più a una forma scritta che a una forma parlata.
È anche vero che nel fumetto non si fa caso più di tanto a queste cose. Si dà per scontato che la voce del personaggio che racconta e quella dell’autore diventino un tutt’uno. Io non mi sono ancora rassegnato a questo. E anche se dubito che una soluzione al problema esista, continuo a cercarla.
10 commenti:
Spiegazione piuttosto convincente e molto utile per chi - come me - sta muovendo i primi dilettantistici passi nelle sceneggiature...ma le domande che mi pongo sorgono a monte della questione:
- perchè infarcire di flashback questi ultimi tre albi? come mai hai scelto di non differenziare in modo più marcato la tipologia di sviluppo del racconto in queste ultime tre storie pubblicate?
- immagino che tu - da esperto sceneggiatore - sia al corrente di quanto i flashback prolungati "stufino" la maggior parte di noi lettori (o è solo una mia teoria?); in una serie in cui i protagonisti perlopiù viaggiano, ritieni che i loro racconti (ergo le rievocazioni del passato) fossero il modo migliore per caratterizzarli? Fare delle semplici allusioni e dei rapidi flashback o, addirittura, far rivivere quelle stesse esperienze nel presente come "incubi reali" o "minacce dal passato" ritieni che non sarebbero stati dei validi artifici per fluidificare la narrazione? Intendo dire che personalmente avrei preferito conoscere gli attori nel loro presente e "giudicarli" non in base ai loro racconti, bensì vedendoli alle prese coi problemi della convivenza forzata, coi timori e le angosce per l'incerto futuro o con qualsivoglia altro pretestuoso "incidente" (come accaduto per il motociclista indisciplinato), per come avrebbero agito e reagito all'interno della società e nella loro intimità (familiare e personale)...
Insomma, in una serie di 12 numeri ho trovato eccessivo aver dedicato ben due albi ad una storia sugli UFO, ad una sui problemi dell'alcoolismo e ad una su questioni di politica: tre temi che mi affascinano, ma che in questo contesto ho giudicato pretestuosi, facendomi sfuggire il filone centrale della vicenda!
Naturalmente parlo da semplice lettore, le mie domande prescindono dalla conoscenza degli sviluppi della storia...
Grazie mille e ancora complimenti per questo meraviglioso blog...
Davide
Davide, dire che i flashback "stufano la maggior parte dei lettori" è un'affermazione azzardata, perché è un tipo di calcolo che non si può fare. Ed è anche un tipo di calcolo che un autore può (e spesso *dovrebbe*) ignorare, se ha la schiena dritta e un minimo di rispetto per il proprio lavoro.
E' ovvio che la caratterizzazione dei personaggi può essere svolta su un asse di tempo lineare. Ma non era quello che mi interessava fare. Altrimenti Caravan sarebbe stata una storia avventurosa simile ad altre che ho già scritto, solo più lunga, e magari un filino più "lavorata".
In questo modo Caravan è (anche) un contenitore di storie che in un altro modo non mi sarebbe stato possibile raccontare. Storie di personaggi diversi, in luoghi diversi, in tempi diversi. Piaccia o non piaccia, è esattamente quello che volevo che fosse.
ma, cito: In questo modo Caravan è (anche) un contenitore di storie che in un altro modo non mi sarebbe stato possibile raccontare. Storie di personaggi diversi, in luoghi diversi, in tempi diversi. Piaccia o non piaccia, è esattamente quello che volevo che fosse.
pur non conoscendo gli esiti della storia (come giustamente deve essere) non sarebbe stato possibile narrare quelle storie inserendole in un contesto di vissuto quotidiano?
o al limite inserendole in un contesto di calamità più naturale.
forse in tal modo le storie diverse non sarebbero risultate più efficaci?
ovviamente ringrazio in anticipo della sdisponibilità e dei chiariemnti che potranno essere offerti.
Luca
"La cosa" di Carpenter ha lo stesso plot di "Dieci piccoli indiani". Andando al nocciolo, entrambe le storie parlano di un gruppo di personaggi chiusi in uno spazio ristretto con un assassino. Allo stesso modo potremmo dire che "Zulu" di Cy Endfield ha un plot identico a quello di "Zombi" di George Romero, oppure di "300": stringi stringi, si tratta sempre di un pugno di persone che si asserragliano in un posto e cercano di respingere un nemico spietato e numericamente superiore.
Ma nessuno si sognerebbe di dire che questi film *sono la stessa cosa*.
Non capisco, quindi, come si possa pensare che Caravan sarebbe "la stessa cosa" se il plot fosse calato in un contesto "quotidiano" privo di eventi straordinari.
Avrei potuto usare alcuni degli elementi del plot in un altro contesto, sicuramente. Ma li avrei usati per raccontare un'altra storia.
Se cambia il contesto, cambia la storia. Per essere precisi, cambia *il senso* della storia.
"Si dà per scontato che la voce del personaggio che racconta e quella dell’autore diventino un tutt’uno. Io non mi sono ancora rassegnato a questo."
Secondo me è giusto non rassegnarsi, perché spesso è una chiave di lettura fondamentale.
Ad esempio sto leggendo "Il Ritorno Delle Furie" di Richard K. Morgan. Il romanzo è senz'altro molto bello e Morgan ha una grandissima capacità di scrittura.
Però c'è un qualcosa che non mi torna e mi fa sentire leggermente distante dal protagonista... poi ho capito: Morgan scrive molto poeticamente, usando anche termini piuttosto ricercati e frasi ad effetto... tutto molto bello... ma il romanzo è narrato in prima persona, e il protagonista ferito DEVE pensare "C***o come sanguina questa ferita, fa un male cane!" invece di "Il dolore mi rimbombava nel petto come un tuono che interrompe il silenzio della notte, e il sangue era un fiume inarrestabile"... insomma...
Spero di essermi spiegato.
Nemo, secondo me nel romanzo è più naturale accettare la convenzione. Altrimenti dovremmo rifiutare per principio, che so, "Il grande sonno" di Chandler e quasi tutta la narrativa hard-boiled. Si tratta del patto narrativo tra autore e lettore. Si accetta quel filtro, punto.
Il problema, nel fumetto, è diverso. E' diverso perché abbiamo un personaggio che finché dialoga parla in maniera normale (con un linguaggio "naturale", ancorché nei limiti del fumetto), e poi quando racconta diventa un narratore scafato.
Capisco cosa intendi. Però anche nel romanzo è così se vogliamo. Proprio nell'esempio che ho citato, lo stesso protagonista parla tipo "posa quell'affare o ti spacco il c**o!" e poi quando narra usa i paroloni... per carità, il libro è molto bello, ci mancherebbe, però visto che se ne parla... parliamone!
Per farla breve basterebbe narrare in terza persona (Asimov docet) oppure bilanciare un po' i due aspetti.
Chiaramente non è facile (ho detto per farla breve :P ), ma è anche vero che spesso il pensiero è sempre più "profondo" e poetico di ciò che poi ci esce dalla bocca.. ;)
Nemo, bisogna però distinguere i due livelli di comunicazione.
I dialoghi del romanzo sono sul livello della comunicazione tra i personaggi.
Il racconto in prima persona è invece sul livello della comunicazione autore-lettore, e in tal caso il diverso registro (più "elevato", diciamo così), mi sembra ammissibile.
Occorre invece vedere se, per esempio, a un certo punto della vicenda il personaggio racconta un fatto a un altro personaggio (proprio come accade in Caravan); e in tal caso sarebbe da valutare se, raccontando, il personaggio usa lo stesso registro linguistico che usa nei dialoghi. In questo caso il raffronto avrebbe un senso.
Si, ok. Questo lo capisco. Il racconto personaggio-personaggio è un bel dilemma.
Personalmente preferisco l'utilizzo dello stesso registro linguistico utilizzato nei dialoghi, oppure piccole variazioni dovute all'enfasi del racconto.... ma trattasi di gusti...
E tornando al discorso generale, è chiaro che si possa accettare in un libro un cambio di registro linguistico con la variazione di livello... ma quando la distanza è troppa, non mi fa comunque "immedesimare" nel racconto (lo stesso nei fumetti). Preferisco allora la narrazione in terza persona.
Un esempio sono i libri di Massimo Carlotto. Anche dove la narrazione è in prima persona il linguaggio resta il medesimo... e i drammi del protagonista li senti sulla pelle.
Ovvio che sto parlando sempre di una mia valutazione soggettiva.
Stephanie sbotta: “Non raccontarmelo come se fosse un film di Hitchcock!”
Quella frase mi ha divertito e mi ha fatto capire quanto padroneggi gli strumenti della narrativa: cambiare registro così repentinamente e inaspettatamente è stato eccezionale, da lettore. Infatti far montare la tensione è bello, ma è anche difficile "risolvere" quella tensione in modo soddisfacente. Tu ci sei riuscito sdrammatizzando, rendendo d'improvviso reale una scena che sapeva tanto di cinema: se avessi continuato su quel registro, saresti finito nel banale, invece hai dribblato il lettore e l'hai portato altrove. Geniale!
I dialoghi di Caravan sono credo il punto forte della mini. E d'altronde in una serie non impostata sull'avventura pura, dei buoni dialoghi fano la differenza tra una serie riuscita e una no. La tua, finora, è riuscita.
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