martedì 16 marzo 2010

LE VIE DEL ROCK SONO INFINITE


Sette anni di silenzio dopo L’uomo occidentale (2003). Cioè sette anni senza un contratto discografico, interrotti solo dal tentativo generoso della Fantastica storia del pifferaio magico (con un solo inedito). Quale peccato avesse commesso Edoardo Bennato per scontare questo purgatorio, non lo so. Ma è storia passata, e guardiamo avanti.

Le vie del rock sono infinite conta 13 brani. Potevano essere di più (personalmente avrei preferito Sinistro o Il gioco delle tre carte al posto di C’era un re, ma pazienza), o forse anche di meno. Perché il materiale, chiaramente composto in tempi diversi, è eterogeneo, e magari qualcosa (Cuba) poteva restare fuori senza rimpianti.

Almeno a un primo ascolto, il sound non mi fa impazzire. La mano del produttore Barbacci (Negrita) si fa sentire, imponendo un rock melodico e pulitino a discapito del Bennato aspro e diretto che amiamo (e che ancora a tratti affiorava nell’Uomo occidentale). È lei e Un aereo per l’Afghanistan sono due ballate tipiche del Bennato degli ultimi decenni. In qualche modo naif nella loro positività, eppure sincere e sentite, con qualche statement esplicito: “Contro guerre senza ragione, contro guerra senza pietà/ contro guerre di chi le vuole/ contro guerre di chi le fa”.

Il capo dei briganti è senza dubbio il pezzo migliore, che associa brigantaggio di ieri e camorra di oggi, in lotta contro uno stato che fa “frastuono” con lo sdegno, ma che alla resa dei conti non riesce a imporsi. Ci sono i consueti divertissement briosi e ironici, Io Tarzan tu Jane, e soprattutto Wannamarkilibera: nella piacevolezza dello scioglilingua qualche battuta va a segno: “o tutte le canaglie vadano in galera, oppure dentro nessuna”.


A mio avviso le cose più interessanti del disco sono quelle del Bennato “intimista” rimasto sempre un po’ schiacciato dal Bennato rock’n’blues ironico e pungente. In amore, musicata con Alex Britti, è una bella canzone sulla difficoltà del parlare d’amore, oltre che del vivere l’amore. C’è una immagine curiosa, nel testo (“ti basta la fede/ti basta la rete e un arpione”), e un accenno che sembrerebbe rimandare alle “coppie scomunicate” di Notte di mezza estate, il successo estivo Bennato/Britti di qualche anno fa: “l’amore va avanti/ tra scritte inquietanti sui muri/ e tra le minacce e l’odio degli inquisitori”, canta Bennato, per concludere che “a volte chi canta canzoni d’amore è stonato/ e chi ha sempre promesso di spiegare l’amore ha imbrogliato”. Una canzone molto più densa di quello che può apparire a un primo ascolto.

Mi chiamo Edoardo e Vita da pirata e sono due canzoni autobiografiche. Anche dopo più ascolti non riesco a farmi piacere la prima, decisamente poco grintosa per il delicato compito di apertura del disco. Molto meglio Vita da pirata: “certe volte con destrezza sono andato all’arrembaggio/ altre volte ho naufragato in mezzo ai guai”. Bennato è ormai un signore sessantenne (è nato nel 1949) che guarda con un misto di tenerezza e ironia al proprio passato. E ho la sensazione che nell’esplosione del ritornello, che affastella le immagini di città vicine e lontane, viste o forse solo sognate, la sua voce sia incrinata da una vena di genuina malinconia.

Interessante anche la chiusura dell’album, affidata a Per noi. “Noi” è una parola poco comune nelle canzoni di Bennato, cane sciolto per antonomasia, e il pezzo assomiglia curiosamente a una preghiera laica, dall’andamento sommesso: “Per noi nemici latitudinali/ impauriti da quello che non conosciamo/ e che forse per questo, soltanto per questo ci odiamo”. Ma la fine è su una nota di speranza: “Per noi, che anche in questo momento/ insieme ci stiamo, e insieme ci stiamo muovendo”.

A sessant’anni suonati, Edo è salpato di nuovo.

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