mercoledì 26 agosto 2009

GIGANTI

Cosa hanno in comune Uomini e topi di John Steinbeck e Il buio oltre la siepe di Harper Lee?

Sono due romanzi (quello di Steinbeck in realtà è un racconto lungo) molto famosi, considerati ormai dei classici, e sono stati adattati per il cinema.

Ma non solo: in ognuno di questi romanzi c'è un personaggio mentalmente ritardato che esibisce una forza fisica non comune. E che probabilmente può essere considerato un archetipo.

Uomini e Topi è ambientato in California durante la Depressione. I protagonisti sono due braccianti, George e Lennie, che lavorano dove capita. Lennie ha il cervello di un bambino e una forza erculea che spesso non riesce a controllare. Gli piace accarezzare i topolini perché "sono morbidi", ma finisce puntualmente per ucciderli. Fatalmente, nello stesso modo provocherà la morte della moglie di Curley, il figlio del proprietario della tenuta dove lui George hanno trovato lavoro. Per sottrarre Lennie alla vendetta di Curley, a George non resta che ucciderlo.


Il ritardo mentale di Lennie è dipinto da Steinbeck senza alcun buonismo ipocrita: proprio come un bambino, Lennie è capriccioso, volubile e bugiardo. Ma non per questo indegno della nostra pietà. Steinbeck ci fa già intravedere il terribile finale nella scena in cui l'anziano Candy è costretto dai compagni a sopprimere il suo vecchio cane, l'unico affetto che gli è rimasto. Questa società non lascia spazio a chi è debole e indifeso, uomo o animale che sia. E Lennie, a dispetto della sua forza è una creatura debole, condannata da un destino crudele a essere solo una vittima.

L'archetipo di Lennie è alla base del personaggio di Henry Niles nel film Cane di paglia di Sam Peckinpah, tratto da un semisconosciuto romanzo dello scrittore inglese Gordon M. Williams, The Siege of Trencher's Farm.

Henry Niles è uno psicopatico che ha stuprato e ucciso delle bambine. Quando George (che diventa David nel film) lo investe con l'auto, Henry è appena evaso dall'ospedale dove era stato portato per una cura. Questo nel romanzo.

Adattando il libro per lo schermo, Peckinpah e lo sceneggiatore David Z. Goodman cambiano il personaggio modellandolo nettamente sul personaggio steinbeckiano. Nel film Henry (interpretato da David Warner) non è un feroce psicopatico: è l'idiota del villaggio, assolutamente innocuo ma molto forte. La sua ingenuità lo ha già messo nei guai con le ragazze. E quando la sciocca Janice Hedden si diverte a stuzzicarlo, lui la uccide senza volerlo, in una scena molto simile a quella di Uomini e topi.

Dopo che il professor David Sumner ha investito il povero Henry, si rifiuta di consegnarlo al branco che pretende giustizia sommaria. L'istinto di protezione nei confronti dello sprovveduto Henry fa detonare il mite David come una bomba, con le sanguinose conseguenze che sappiamo.


In effetti la morale di
Cane di paglia rappresenta un'estensione di quella di Uomini e topi (la società schiaccia il più debole), ma con una curiosa estensione "ottimistica", per certi versi più agghiacciante della morale steinbeckiana: infatti il più debole può rovesciare le sorti della battaglia... se è determinato a battere in spietatezza i suoi oppressori.

Il Buio oltre la siepe di Harper Lee è uscito nel 1960, ma, come Uomini e topi, è ambientato negli anni trenta. La storia si svolge in Alabama ed è raccontata dalla piccola Scout, figlia dell'avvocato Atticus Finch. Scout e il suo fratellino Jem sono affascinati dalla figura di Arthur “Boo” Radley. Boo, considerato nel paese una sorta di “uomo nero”, è in realtà un giovane con disturbi mentali, che vive segregato in una vecchia casa dall'aspetto spettrale. In qualche modo Scout e Jem riescono a “comunicare” con lui, depositando nel cavo di un tronco piccoli regali che Boo ricambia nottetempo, ma senza mai mostrarsi di persona. Intanto Atticus accetta di difendere Tom Robinson, un nero accusato di avere violentato una ragazza bianca, Mayella Ewell. Atticus riesce a dimostrare in tribunale che Tom è innocente (padre e figlia avevano mentito), ma contro ogni evidenza Tom è condannato. Ewell, furioso per essere stato pubblicamente svergognato, tenta di vendicarsi di Finch colpendo Scout e Jem. Ma sarà proprio Boo a salvarli, affrontando Ewell e uccidendolo. Dopo essere diventato suo malgrado un eroe, Boo tornerà nella sua casa fatiscente per non uscirne mai più.

Boo è molto diverso dal Lennie di Uomini e topi. I suoi disturbi mentali (forse) non erano presenti dalla nascita, ma sono dovuti al padre che lo ha tenuto segregato per anni. Boo appare fin dall'inizio come una figura mitica, circondato da un alone di timore reverenziale e nello stesso tempo di fascino (almeno agli occhi dei ragazzi). Anche l'aspetto inquietante della sua casa sempre chiusa contribuisce a quell'aura di mistero. Boo rivela la sua natura gentile dapprima con un piccolo gesto (ricambia i regalini dei ragazzi), e infine si rivela un vero e proprio deus ex machina: affronta in una lotta all'ultimo sangue il violento Bob Ewell e lo uccide. Curiosamente, quando finalmente appare nelle ultime pagine del romanzo, la descrizione di Scout ce lo rivela come un uomo tutt'altro che gigantesco, con la barba non rasata e la carnagione pallida. Somiglia più a uno spettro, ma per i bambini (e per il lettore) è un gigante.

Mi chiedo se in qualche modo si possa far risalire a Boo Radley l'ispirazione per il personaggio di Tom Cullen nell'Ombra dello Scorpione di Stephen King. Il romanzo racconta l'odissea dei sopravvissuti a un'epidemia che ha decimato il pianeta. I superstiti si dividono in due gruppi: uno si raccoglie a Boulder intorno alla figura dell'anziana Mother Abagail, e l'altro intorno al satanico “uomo nero” Randall Flagg, che vuole imporre il suo dominio con il terrore. Scampato all'epidemia, Tom Cullen è come un bambino, smarrito e incapace di valutare la gravità di quello che sta succedendo. Per sua fortuna incontra il muto Nick Andros, e con lui entra a far parte del gruppo di Mother Abagail. Più avanti Tom sarà usato a sua insaputa come “infiltrato” nella Las Vegas di Randal Flagg. Il suo ritardo mentale gli dà una sorta di “superpotere”: quando si concentra per ragionare Tom è capace di arrivare a uno stadio simile all'auto-ipnosi. E in questa sorta di trance mostra doti di preveggenza simili a quelli di Mother Abagail. In parole povere: ben lungi dal limitarlo, l'handicap di Tom lo trasforma in un essere in qualche modo più dotato dei cosiddetti “normali”.

A differenza di Harper Lee, King non ha il realismo come obiettivo principale, ed è quindi libero di conferire fisicità all'aura "sovrannaturale" che nell'archetipo di Boo è solo una suggestione. Boo è un essere umano come tanti, forse appena un po' più forte della media. Il ritardato Tom Cullen è un puro di cuore ed è realmente un essere straordinario.

Restando sempre in ambito "kinghiano", forse possiamo dire che John Coffey, il gigantesco nero del Miglio Verde (ambientato, ma guarda un po', negli anni trenta), fonde i due archetipi della vittima e dell'eroe. Coffey è contemporaneamente deus ex machina e vittima designata.

Quasi sempre, però, le rappresentazioni "mainstream" del ritardo mentale (perlomeno quelle cinematografiche) si collocano di volta in volta in punti intermedi tra i due archetipi della vittima e dell'eroe. Vedi il De Niro di Risvegli, il Dustin Hoffman di Rain Man, il Sean Penn di Mi chiamo Sam, etc. Personalmente, nonostante questi ruoli (politicamente corretti e a volte perfino ricattatori) assicurino il successo ai film e ai loro interpreti, trovo più interessanti altre operazioni.

Come quella decisamente radicale che vira al nero l'archetipo di Boo, proposta da Frank Miller col Marv di Sin City. Che potrebbe fare il paio col Leon dell'omonimo film di Luc Besson. Curiosamente, entrambe le storie fanno riferimento anche a un altro archetipo letterario/cinematografico, quello della Bella e la Bestia. Ma col gioco delle ascendenze e delle discendenze si potrebbe continuare a lungo, e io mi fermo qui.

Le immagini, a partire dall'alto:

Lon Chaney junior nella parte di Lennie, nella prima versione cinematografica di Uomini e topi, diretta nel 1939 da Lewis Milestone.

David Warner nella parte di Henry Niles in Cane di paglia, diretto nel 1971 da Sam Peckinpah.

Un irriconoscibile Robert Duvall, alla sua prima apparizione sullo schermo nei panni di Arthur Boo Radley, in Il buio oltre la siepe (1962) di Robert Mulligan.

Il gigantesco (due metri!) Bill Fagerbakke nel ruolo di Tom Cullen, nella mini-serie televisiva L'ombra dello scorpione, diretta nel 1994 da Mick Garris.


martedì 25 agosto 2009

UN PO' DI MUSICA



Niente nostalgie su questo blog, il video risale a circa un anno fa.

Chrissie Hynde da Letterman, con dei Pretenders nuovi di zecca.

Every drop that run through the veins always makes its way back to the heart again...

giovedì 20 agosto 2009

BACI O SPARI? (ANCORA SUI FINALI)


Happy ending oppure unhappy ending? Finisce che lui si salva o muore con tutti gli altri?

Credo che il dilemma lieto fine/finale negativo sia un finto dilemma. Ci sono infinite possibilità tra il banale happy ending hollywoodiano anni cinquanta e l’altrettanto stupido finale negativo di certi horror.

D’altronde, un finale negativo può essere “giusto” senza risultare irritante.

Uno dei miei film preferiti è Voglio la testa di Garcia: si conclude col fermo di fotogramma sulla canna fumante di un mitra. Il film è un tipico noir con l’eroe (anti–eroe, nel nostro caso) maledetto, che sfida il Fato e ne esce sconfitto. Il film di Peckinpah ha una struttura da tragedia shakespeariana tipica di molti noir, e pretendere un lieto fine sarebbe ridicolo.

Un altro finale tristissimo che adoro è quello di Gallipoli – Gli anni spezzati di Peter Weir. Qui, come in molti film bellici, l’esito infelice della vicenda personale dei ragazzi racchiude (o riverbera con più vigore, fate voi) la tragedia collettiva della guerra.

Peter Weir è un regista che ha sempre qualcosa da dire, ed è particolarmente attento ai finali, a cominciare da quello, decisamente spiazzante, di Picnic a Hanging Rock . Ve lo immaginate un finale che offre una soluzione “razionale” alla scomparsa delle ragazze?

Oppure pensate al finale di Witness, in cui la ricomposizione dell’ordine sociale con la cattura dell’assassino (lieto fine, quindi) non placa il “disordine” dei sentimenti (di John e Rachel, ma anche quelli dello spettatore).

E quello dell’Attimo fuggente è un lieto fine? Nella prima versione della sceneggiatura il professor Keating, minato dalla malattia, moriva. Weir cambiò le cose. Ora, nessuno può dire che quello de L’attimo fuggente è un lieto fine, ma credo che “Oh, capitano, mio capitano” resti uno dei finali più emozionanti e “positivi” mai visti al cinema.

E pensiamo anche a quanto è sottile il finale di Master and Commander, un film avventuroso senza troppe riflessioni; ma da quel finale beffardo (benché “lieto”) filtra un messaggio irridente verso la retorica di cui è imbevuto l’eroe.

Il faccione di Russell Crowe è presente in un altro film famosissimo, che nella sua “leggerezza” di film avventuroso ci porta al cuore del problema: definireste “lieto” il finale del Gladiatore, col povero Massimo morto nell’arena?

La mia risposta è che sì, possiamo considerarlo un lieto fine. Perché? Perché Massimo ha conseguito il suo obiettivo, vendicare l’assassinio dei suoi cari.

Ogni storia è il racconto di un personaggio che deve conseguire un obiettivo. È in base al conseguimento o al mancato conseguimento di un obiettivo che definiamo il finale “positivo” o “negativo”.

Ma se il finale “positivo” è quasi sempre accettato senza troppe difficoltà, il finale “negativo” ha bisogno di una motivazione in più per reggere. Quando quella motivazione regge, ci alziamo dalla sedia dispiaciuti per la sorte dei personaggi, ma non ci sentiamo traditi.

Non ci sentiamo traditi dal finale di Carlito’s Way, in cui riconosciamo la struttura della tragedia, con l’eroe che si batte contro il destino. E perde. Riconosciamo il valore “eroico” della sua sconfitta allo stesso modo in cui riconosciamo quello del Mucchio Selvaggio, che va incontro al massacro per coerenza, per non tradire un amico.

Non ci sentiamo traditi dall’infelice esito della fuga di Thelma & Louise. Riconosciamo il valore della libertà che le due donne si sono conquistate per un tempo troppo breve.

Non ci sentiamo traditi dal finale cupissimo di un film molto sottovalutato, La tempesta perfetta. Sotto la patina del blockbuster si nasconde un film quasi steinbeckiano, in cui la lotta dei pescatori con la forza implacabile della Natura assume una dimensione titanica.

In parole povere: il finale “negativo” ha bisogno di avere un senso. Di elaborare qualcosa che assomiglia a un valore. E questo valore possiamo darglielo solo con una costruzione accurata della storia. Il che implica che dobbiamo chiederci “di che cosa stiamo parlando in realtà?” e trovare una risposta convincente.

Perché in realtà è piuttosto facile costruire un finale negativo “sorprendente”, come accade a volte nei film horror. Basta sottomettere qualsiasi istanza narrativa all’effetto shock, senza tenere conto delle premesse della storia e senza chiederci che cosa stiamo raccontando in realtà. Legittimo, certo. Ma un conto è valutare questa soluzione in base alla reazione “epidermica” dello spettatore, altro conto è pronunciarci sulla sua qualità narrativa.

“Sorprendente” non è di per sé sinonimo di “coerente”, né tantomeno di “narrativamente valido”. A meno che questo finale sorprendente non sia un finale come quello dei Soliti sospetti, frutto di una sceneggiatura costruita come un meccanismo a orologeria, o quello di un buon thriller un po’ dimenticato come Senza via di scampo. O, tanto per citare un film italiano, l’epilogo di Semaforo rosso, tesissimo thriller anni settanta di Mario Bava. In tutti questi film il finale (non esattamente positivo) è già “scritto” dentro tutto ciò che l’ha preceduto. Solo che gli autori sono talmente bravi da tenercelo nascosto.

E allora, anche in quel caso, noi spettatori non ci sentiamo traditi.

mercoledì 19 agosto 2009

DELL'AMERICA E DELL'ITALIA

E' morta Fernanda Pivano. Se noi italiani amiamo (ancora) l'America, un po' lo dobbiamo anche a lei.

Qui l'articolo di Repubblica.

Qui il sito ufficiale.

domenica 16 agosto 2009

FINISCE CHE LUI SI SALVA, MA...

SPOILER ALERT: in questo articolo è rivelato il finale del film The Mist.



Nove volte su dieci trovo i finali negativi – quelli in cui il protagonista muore – insoddisfacenti o, peggio, stupidi.

Avete presente i “controfinali” dei film horror/thriller in cui il protagonista sembra salvo, ma il mostro creduto morto salta fuori all’ultimo istante? O, peggio ancora, il protagonista ha solo sognato di essere salvo, mentre in realtà sta per morire? Ecco, io auspico severe punizioni corporali per chi ci infligge idiozie di questo tipo.

Il finale infausto significa semplicemente che sceneggiatore e regista hanno ficcato i personaggi in una situazione senza uscita e non riescono (o non sono interessati) a tirarli fuori in maniera convincente. E allora è sufficiente sopprimerli, possibilmente in maniera atroce. Dopotutto è solo un horror, perché spremersi tanto le meningi?

All’opposto, ci sono casi in cui un autore è convinto che il suo film non è un semplice film di genere, e dargli un lieto fine sarebbe banale. Meglio quindi ammannire allo spettatore un finale negativo che, si sa, è sempre intelligente (alla critica “di sinistra” piace dire che “non è consolatorio”). È cascato a piedi uniti in questa trappola anche un talentoso sceneggiatore–regista come Frank Darabont, adattando per lo schermo The Mist, un lungo racconto di Stephen King.

La trama: David Drayton sta facendo la spesa in un supermercato insieme al suo figlioletto, quando una nebbia misteriosa cala sulla città e comincia a fagocitare (letteralmente) la gente. Dentro quella nebbia infatti si annidano creature assetate di sangue, che fanno a pezzi chiunque si trovi all’aperto. David si barrica con altre persone nel supermercato. Le ore passano, i soccorsi non arrivano e gli assalti delle creature si moltiplicano. Gli assediati devono decidere se restare chiusi o tentare una sortita. Com’è ovvio, i pareri sono discordi, e la tensione sale drammaticamente…

Fino agli ultimi dieci minuti, pur inanellando tutti gli stereotipi del genere, Darabont riesce a tenere la storia dentro i binari di un insolito realismo, dipingendo in maniera efficace la tensione che dilania gli assediati.

E il film, nonostante qualche lungaggine, scorre bene fino alla fine, quando David con il suo bambino si uniscono a un piccolo gruppo di persone e tentano una sortita. Attaccati dai mostri, in cinque riescono a raggiungere il furgone di David e a partire.

A questo punto, con la fuga, secondo il classico manuale di sceneggiatura la storia è pressoché terminata. I protagonisti hanno raggiunto l'obiettivo formulato nel turning point del primo atto: lasciare il supermercato. Resta da imbastire una scena finale che prevede poche possibilità: l’uscita definitiva dalla nebbia, o l’arrivo dei soccorsi, o il finale “sospeso” del racconto originale. E per qualche secondo sembra che Darabont si tenga fedele a quest’ultimo, con l’auto dei superstiti che si allontana nella nebbia verso un destino ignoto.

E invece no.

Il furgone passa accanto alla casa dei Drayton, e da una finestra David vede sua moglie morta. Dopo avere constatato che la nebbia si estende a perdita d’occhio e nasconde mostri sempre più grandi (ne intravediamo uno grande come un palazzo), i nostri finiscono la benzina. Continuare a piedi equivale a morte certa. Nella pistola sono rimaste quattro pallottole, e in un baleno gli adulti – mentre il bambino dorme – prendono la decisione. È David a premere il grilletto, rimanendo così l’unico in vita.

Pochi istanti dopo la nebbia si dirada, rivelando una colonna di mezzi dell’esercito che ripulisce i boschi circostanti con i lanciafiamme, e conduce i superstiti verso un posto sicuro.
David urla al cielo la sua disperazione. Fine.

Perché questo è un finale deludente, che chiude male quello che fino a dieci minuti prima era un buon film?

Non perché è un finale deprimente (e lo è parecchio), ma perché è insopportabilmente pretenzioso.

È ovviamente un’ironia tragica che David uccida gli altri (compreso suo figlio) pochi secondi prima che arrivi la salvezza. Peccato che la storia di King (praticamente una variante sovrannaturale de Gli uccelli, niente di nuovo sotto il sole) non sia affatto una tragedia di Euripide, ma una classica storia “di mostri”. Darabont la rende con una ben assestata serie di brividi e qualche buona annotazione psicologica, il che non è poco. Ma non basta a elevare il film a livello di tragedia euripidea e a giustificare la crudeltà del finale.

Nonostante la durata (due ore piene, decisamente troppo) e qualche tentativo di affondo “politico” (la figura della fanatica religiosa; i militari con i loro esperimenti) The Mist non è A prova di erroreL’ultima spiaggia, in cui il finale cupo (anzi, letteralmente apocalittico) costituisce un fortissimo statement pacifista. In The Mist il finale shock è semplicemente un effettaccio in più, “più audace che narrativamente efficace”, come ha scritto il critico del Chicago Tribune. Alla fine, uno stratagemma non così diverso dal ciarpame horror da cui Darabont ambisce a distaccarsi.

venerdì 7 agosto 2009

PERCHE' LA MIA EDICOLA NON HA IL MIO FUMETTO PREFERITO?

Sapete quante sono le edicole in Italia? No? Beh, nessuno lo sa con precisione. Cercando in Rete ho trovato un dato attendibile. Uno studio del 2003 del Centro Studi Sinagi ha individuato 40.000 punti vendita. Dato collaterale non trascurabile: il 25% del venduto nazionale appartiene alle circa 5.000 edicole della Lombardia.

Un editore che volesse distribuire il suo fumetto in tutte le edicole, assicurandosi la copertura di tutto il territorio nazionale, dovrebbe stampare almeno 80.000 copie, due copie per edicola.

Ora, ci sono diversi problemi. Questa è una cifra enorme, primo problema. Secondo problema: oggi non è più quel tempo felice in cui la tiratura era tarata a circa un terzo sopra il venduto effettivo (cioè: per vendere 30.000 copie se ne stampavano 45.000). Oggi non vendi più due terzi della tiratura. Ne vendi la metà. Detto in altre parole: per vendere 30.000 copie al giorno d’oggi non ne devi più stampare 45.000, ne devi stampare il doppio, 60.000.

Voi capite che parliamo di cifre fuori portata per piccole case editrici che stampano “bonellidi”.

Quindi, rassegniamoci: salvo che per pubblicazioni come Tex, Dylan Dog, Diabolik, Topolino, è ovvio che qualsiasi tiratura sarà insufficiente a coprire l’intero territorio nazionale.

Si dovrà quindi adottare un criterio strategico, e il criterio fatalmente consisterà nel concentrare le copie nelle zone in cui, “storicamente”, è garantita una vendita maggiore. Come nelle grandi città, ad esempio. E perciò se un’edicola in piazza Duomo a Milano si assicura 20 copie di Caravan, è chiaro che l’edicola di Molfetta resterà sguarnita. D’altronde, di solito l’edicola di Molfetta resta sguarnita comunque. Al sud si vende meno, da sempre, e la distribuzione avviene col contagocce.

Questo è un classico caso di circolo vizioso. Perché se in una certa regione nessuno compra i fumetti, là i fumetti non arriveranno mai. E se là i fumetti non arrivano – e quindi non sono visibili – nessuno li comprerà mai.

Questa situazione ha ripercussioni anche sul piano culturale e artistico: il circuito delle edicole, che era uno straordinario canale “democratico”, ha perso terreno. Terreno che è andato perso e basta, e non è stato riconquistato dal canale alternativo, quello “elitario”, delle librerie. il fumetto italiano ha perso la sua capacità di penetrazione capillare nella società. E quindi nell’immaginario collettivo.

Oggi che un mercato di grandi tirature è impensabile, è chiaro che occorre studiare meglio le strategie di distribuzione. Ed è chiaro (beh, evidentemente non a tutti; diciamo che dovrebbe essere chiaro) che ogni produzione a fumetti va ripensata da capo in conseguenza di questa situazione.

mercoledì 5 agosto 2009

CHE COS'E' UN EDITORE DI FUMETTI?


Qualche commento alla notizia della chiusura di John Doe, di cui trovate i dettagli nel blog di Roberto Recchioni.

La Star Comics chiude Jonathan Steele.
La Star Comics chiude Trigger, programmata per durare sei numeri, al numero 4.
L’Eura Editoriale cambia proprietario, e la prima cosa che fa è chiudere John Doe, il “bonellide” più venduto.

Banalmente, si dice che una serie a fumetti chiude quando non vende a sufficienza.

A sufficienza per chi?

Se una serie si ripaga le spese, se gli autori sono retribuiti regolarmente e regolarmente i lettori la comprano, oggettivamente vende “a sufficienza”.
Ma anche se una serie va in rosso di poco potrebbe essere conveniente tenerla aperta. Magari per motivi di “immagine”, per il tempo sufficiente a dimostrare che un impegno con i lettori è onorato fino in fondo. O anche per motivi di visibilità, per mantenere sugli scaffali delle edicole un prezioso spazio in più.

Certo, nessuno dice che un editore di fumetti debba essere un benefattore.

Ma allora che cos'è un editore di fumetti?

Per cominciare, se uno fa l’editore di fumetti, dovrebbe capire qualcosa del lavoro del fumetto. Per esempio, dovrebbe capire che quello ormai noto come “formato bonelliano” è un formato maledettamente pesante da gestire. Richiede una lavorazione molto lunga e un investimento massiccio. È un formato inventato proprio dalla Sergio Bonelli Editore (all’epoca Edizioni Araldo), nato per necessità specifiche di quella casa editrice, commisurato alle dimensioni e alle possibilità di quella casa editrice (che si fondava sul successo di Tex, tuttora ineguagliato).

Da almeno trent’anni quel formato è replicato da case editrici che non hanno la struttura della SBE, non hanno quelle possibilità economiche e, fatemelo dire, non hanno il know how (al limite ce l’hanno singoli autori, e non è detto che basti).

Da trent’anni nessuna casa editrice che ha proposto il formato “bonelliano” è mai riuscita non solo a sfondare sul mercato del fumetto popolare, ma nemmeno a eguagliare il venduto delle serie bonelliane meno vendute.

Perché? Quali sono i problemi?

Forse, molto banalmente, il problema è uno solo. Ed è che per essere editori di fumetti non basta stampare dei fumetti.