mercoledì 21 ottobre 2009

ALLONS, X-ENFANTS!


POST EDITATO

Una notizia da Francesco Artibani:

"Ciao, Michele, un breve aggiornamento solo per informarti che il primo volume di X-Campus ha vinto la 18a edizione del Festival di Rennes "Bulles en fureur".

Sabato scorso, 17/10, Roberto Di Salvo ha ritirato il premio in Bretagna; il volume è stato premiato per la categoria preadolescenti (mentre il premio per la seconda categoria, quella degli adolescenti, è andato a "Nanami" di Corbeyran, Nauriel e Sarn)."

La notizia si può leggere (se capite il francese) qui e in quest'altra pagina.

Si tratta di un premio dato non all'interno delle solite manifestazioni fumettistiche, ma nell'ambito di un progetto di educazione alla lettura per ragazzi provenienti da famiglie disagiate. E a votare sono giurie composte di giovanissimi lettori.

Non sono coinvolto direttamente (in Francia è uscito solo il primo volume di X-Campus, scritto da Francesco), ma la notizia mi fa immensamente piacere.

Ne approfitto per ricordarvi che la serie, raccolta in un solo volume, uscirà in Italia nel mese di dicembre, nella collana di volumi allegati alla Gazzetta dello Sport.

Questa la pagina di X-Campus sul sito Panini.

CARAVAN A LUCCA (conferma)

POST EDITATO

Il sito ufficiale di Lucca Comics ha pubblicato il programma delle manifestazioni e degli incontri.

Confermato l'appuntamento con il sottoscritto e con Emiliano Mammucari, giovedì 29 ottobre, per parlare di Caravan, varie ed eventuali. Il luogo è la sala incontri della Camera di Commercio, Corte Campana, e l'orario è confermato per le 17.

Per chi fosse interessato: sempre nella stessa sala, sabato alle 16, incontro con gli sceneggiatori di Dylan Dog Paola Barbato, Giovanni Di Gregorio, Tito Faraci, Roberto Recchioni e Pasquale Ruju.

Come già anticipato, cercherò di farci un salto anch'io.

A presto!



lunedì 19 ottobre 2009

STOP! BUONA LA PRIMA!

Il cinematografico “Buona la prima” è spesso l’equivalente del modo di scrivere un fumetto seriale. E lo dico con rammarico. A differenza di chi scrive romanzi o sceneggiature per il cinema, noi non possiamo tornare indietro. Non esiste una seconda stesura, figurarsi una terza.

Possiamo intervenire sul testo, con possibilità molto limitate, in fase di revisione. Allora possiamo cambiare fino a stravolgerlo un dialogo che si svolge dentro una stanza. Ma non possiamo fare in modo che quel dialogo si svolga sul ponte di una nave.

Possiamo ritornare su quello che abbiamo scritto solo se siamo particolarmente veloci, e soprattutto se lavoriamo su una storia alla volta.

Se scrivo una storia alla volta, le cose funzionano così: do quindici tavole al disegnatore, e il disegnatore è “coperto” per un mese. Durante quel mese io porto avanti la storia. Se arrivo, per dire, a tavola 70 e ho bisogno di tornare indietro e cambiare qualcosa che ho già scritto, posso farlo... ovviamente a partire da tavola 16. Le prime 15 tavole sono già cotte e mangiate, per così dire.

Se non ho perfettamente chiara in testa la storia che sto scrivendo, tendo a consegnare tranches brevi (dieci-dodici tavole), in modo da tenermi ampi margini di intervento man mano che porto avanti la sceneggiatura.

La condizione ideale è ovviamente finire la sceneggiatura e avere modo di limarla prima di consegnarla completa al disegnatore (che in questo modo, a sua volta, lavora meglio). Ma questo capita di rado.

Lavorando a più sceneggiature contemporaneamente, tornare indietro e riscrivere è molto più difficile. Nei primi, frenetici anni di Nathan Never scrivevo venti tavole per Casini, e mentre lui lavorava a quelle ne scrivevo dieci per Toffanetti. Mentre Toffanetti disegnava quelle dieci, ne scrivevo altre quindici per Mari. Quando consegnavo a Mari, Casini aveva ormai finito la sua tranche e dovevo mandargliene un’altra, dopodiché il ciclo ricominciava. E poi qualcuno mi chiede perché non ho continuato a scrivere anche Tex.

Se ripenso a come lavoravo allora, e alla sicurezza che era necessaria per scrivere qualcosa di coerente già in prima battuta, mi dico che non era professionalità, ma giovanile incoscienza. Ricordo perfettamente alcune sceneggiature cominciate avendo solo un’idea vaghissima, o addirittura nessuna idea di dove andare a parare: Vampyrus, Tragica ossessione, Un mondo di robot.

Ricordo un’altra sceneggiatura interrotta dopo circa una ventina di tavole, disegnate da Stefano Casini, e ripresa dopo quasi dieci anni, quando avevo ormai completamente dimenticato cosa volevo scrivere. Quella sceneggiatura è diventata la storia Mandato per un omicidio/Intrigo su Melpomene, e Casini è stato bravissimo a dare continuità grafica al lavoro: sfido i lettori a individuare la tavola in cui si interrompe la tranche del 1994 e comincia quella del 2004. Quanto alla storia, ho dovuto reinventarla da capo (partendo comunque dalla situazione presentata nelle prime tavole, ovviamente immodificabili).

Notate che io non ero per niente prolifico (e non lo sono mai diventato). Credo di essere arrivato al massimo a cinque storie in contemporanea. Antonio Serra riusciva a scriverne il doppio. Era (ed è) così per tutti, intendiamoci. Quando mi chiamarono a scrivere Tex, per evitarmi di proporre idee già sfruttate Claudio Nizzi mi diede la lista delle sceneggiature a cui stava lavorando: erano quattordici.

Dato che non mi andava di trasformarmi in una macchina sforna-sceneggiature in cui è sempre “buona la prima”, ormai da anni cerco di lavorare a una o due storie alla volta. Al massimo – se proprio c’è qualche emergenza - arrivo a tre. È il mio modo per tentare di preservare la bontà del mio lavoro. E la salute, ovviamente, ché quella viene prima di tutto.

sabato 17 ottobre 2009

LE PARTI E IL TUTTO

Nell’introduzione all’edizione integrale dell’Ombra dello Scorpione (The Stand) Stephen King spiega il perché della nuova versione del libro. Rispetto al dattiloscritto originale, la prima edizione aveva circa quattrocento pagine in meno. La casa editrice aveva deciso il taglio perché pubblicando integralmente il libro il prezzo di copertina sarebbe stato superiore a 12,95 dollari. Troppo per le tasche dei lettori, secondo l'ufficio marketing.

Fu chiesto a King di accorciare il romanzo, e lui eseguì. Ovviamente a malincuore, cercando di tagliare alcune parti “superflue”.

Per spiegare la propria insistenza nel pubblicare l’edizione integrale del romanzo, King fa un esempio. Racconta in poche righe la storia di Hansel e Gretel, la fiaba tedesca resa celebre dai fratelli Grimm. La riporto qui, precisando doverosamente che la traduzione è di Bruno Amato e Adriana Dell’Orto.

Hansel e Gretel erano due bambini con un buon padre e una buona madre. La buona madre morì e il padre si risposò con una donna cattivissima. Questa vipera avrebbe voluto che i bambini si togliessero dai piedi per avere più denaro da spendere per sé. Impose al marito, fiacco e rimbambito, di portare Hansel e Gretel nella foresta e di ucciderli. All’ultimo momento il padre dei ragazzi si perse d’animo e permise loro di vivere in modo da morire di fame nella foresta, invece di trovare una morte rapida e pietosa sotto la lama del suo coltello. Girovagando, i due si imbatterono in una casa fatta di pan di zucchero. Ci viveva una strega cannibale che li ingabbiò, informandoli che quando sarebbero diventati belli grassi se li sarebbe mangiati. Ma i ragazzi ebbero la meglio su di lei e Hansel la ficcò nel forno. Trovarono il tesoro della strega e anche una mappa, perché alla fine ritornarono a casa. Quando vi giunsero, papà mise alla porta la vipera a calci nel sedere e vissero per sempre felici e contenti.

King dice che questa versione short della fiaba è “una schifezza (…) come una Cadillac con le cromature squamate e la vernice scorticata fino al metallo”.

Cosa manca? Per esempio, un dettaglio macabro: la donna chiede al marito di portarle i cuori dei due bambini come prova dell’esecuzione, e il marito le porta i cuori di due conigli. E manca anche il dettaglio delle briciole di pane. Hansel, avveduto, cammin facendo sbriciola una pagnotta per segnare il cammino, ma gli uccelli beccano le briciole, impedendo così a lui e Gretel di ritrovare la strada di casa.

Entrambi questi episodi sono superflui – la short version è perfettamente comprensibile anche senza di essi – ma, dice King, contribuiscono comunque alla trama. “Sono grandi e magici elementi di narrazione, trasformano quella che sarebbe potuta essere una storia qualunque in un racconto che affascina e terrorizza i lettori da più di un secolo”.

King dice che in un buon racconto l’intero è più della somma delle singole parti. Ciò significa che una piccola parte può contribuire al tutto in maniera non matematica, e ciononostante fondamentale. Ed ecco perché lo scrittore ha voluto che L'ombra dello scorpione uscisse in edizione integrale.

C’è un risvolto interessante, comunque, nell’operazione compiuta da King (che presenta analogie con la “ricostruzione” di Blade Runner da parte di Ridley Scott): al momento di eseguire i tagli per la prima edizione King taglia tutto ciò che ritiene “superfluo” o comunque non troppo importante per la trama, come la parte relativa all’assassino che si fa chiamare The Kid. Ma, al momento di reintegrare le parti tagliate nella seconda edizione, King non reintegra tutto. E anzi, dice con grande sincerità che alcune di quelle parti meritavano di essere tagliate.

La narrativa non è una scienza esatta.

Purtroppo o per fortuna.

mercoledì 14 ottobre 2009

STRUTTURE

Fateci caso: in un film mainstream tutti i personaggi principali vengono presentati e caratterizzati nei primi 10–12 minuti. E la struttura standard di tre atti, codificata dal cinema americano con lo schema di Syd Field, pone il turning point – l’evento che imprime una direzione precisa alla storia – tra il ventiquattresimo e il ventisettesimo minuto. Perciò, prima che sia passata mezz’ora sappiamo invariabilmente di cosa parlerà il film.

Se non mi credete, mettete su un dvd e controllate il timer. Io l’ho appena fatto con Wilderness, un buon horror di genere “survival” diretto da Michael J. Bassett. I primi dieci minuti sono dedicati alla presentazione dei giovani detenuti protagonisti della storia. Al minuto 25 i nostri si accorgono della presenza di morsi su un cadavere, segno che c’è “qualcosa di strano” sull’isola. Quello è il turning point, perché da questo punto capiamo che quel “qualcosa” si accinge a massacrare tutti.

Effettuare questa operazione di timing quando scriviamo un romanzo non è possibile. Non solo per ovvi motivi tecnici (differenze di stampa e di formato tra un libro e l’altro), ma perché l’elemento “tempo” non è oggettivo, è interiorizzato dal lettore e varia da persona a persona. Banalmente parlando, possiamo dire che una storia non deve iniziare né troppo presto né troppo tardi. Ma in un romanzo non si può predeterminare a freddo (come invece accade in uno script per il cinema) il numero della pagina in cui va inserito il turning point.

Sarebbe anzi interessante vedere un film tratto da un libro, individuare l’evento che costituisce il turning point e controllare poi sul libro a quale pagina si trova. In base allo schema di Syd Field, il turning point si trova a circa un quarto del film (prendendo come modello un film di due ore) o a un terzo (se prendiamo il tipico horror da novanta minuti).

Ma in quale punto del libro si trova il turning point? Può darsi che, contando le pagine, alla fine la proporzione risulti la stessa osservata nel film. Quello che è certo è che nessuno ha mai provato a codificare una struttura generale per il romanzo come invece si è fatto per i film. O, se una simile struttura esiste, certamente non viene applicata con lo stesso rigore di quella di Syd Field.

Perché è così difficile codificare il romanzo? Perché il romanzo ha una struttura molto più elastica e meno "inquadrabile" di quella di un film o di un telefilm. E se noi leggessimo un romanzo “al buio”, cioè senza avere alcuna informazione su di esso, probabilmente faticheremmo a capire a quale genere appartiene (ammesso che appartenga a un genere) prima di avere letto un congruo numero di pagine.

E anche a lettura finita il dubbio potrebbe restare, specie in quei romanzi che utilizzano elementi chiave del “genere”, ma non si muovono rigorosamente dentro la struttura del “genere”. Pulp di Charles Bukowski è un poliziesco hard boiled? E Sotto la pelle di Michel Faber è un romanzo di fantascienza?

Se poi andiamo ad analizzare romanzi a fumetti – quelli veri, come Una ballata del mare salato, Maus, Persepolis – ci accorgiamo che non possiamo rintracciare in opere simili una struttura analoga a quella del racconto cinematografico, per quanto sotto l’aspetto visivo possano trasparire soluzioni “cinematografiche” (nella composizione delle vignette o nel montaggio). Proprio come un romanzo letterario, il “romanzo grafico” ammette digressioni, monologhi, cambiamenti del punto di vista.

Chi volesse tentare un approccio critico dovrebbe tenerne conto. E dovrebbe tenerne conto anche chi si avvicina a un “romanzo grafico” come lettore.

Non saprei parlare del primo tipo di approccio (non è il mio campo) e non intendo parlare del secondo. In un prossimo post vi parlerò invece dell’approccio dell’autore.

lunedì 12 ottobre 2009

MEDAGLIA D'ORO PER DAVIDE DONATI

POST EDITATO

Davide Donati si è classificato primo, ex aequo con il celebre Hellboy di Mike Mignola, nella categoria "miglior personaggio" nel referendum organizzato dalla rivista XL e dalla manifestazione Romics (ne avevamo parlato qualche giorno fa).

Devo dire che non me l'aspettavo. E' un risultato straordinario per una mini-serie con appena cinque numeri in edicola.

Complimenti a Davide... ;-)

e grazie a tutti!

domenica 11 ottobre 2009

I SEE BAD TIMES TODAY


Chi sostiene di avere a cuore le sorti del fumetto dice che non è un male se ci saranno meno fumetti. L’importante è che siano buoni, no?

Il tipico nerd fumettomane è convinto che verrà un’Apocalisse che risparmierà i giusti. Una divinità collerica ma benigna punirà i malvagi facendo chiudere le loro serie (di infimo livello qualitativo) e lascerà salvi gli Artisti con la A maiuscola.

Mi spiace deludere il nostro nerd: quando la falce della Grande Crisi si abbatterà su di noi non farà differenze tra uomini e donne, militari e civili, artigiani e artisti, quelli che hanno letto Watchmen e quelli che sono fermi a Tiramolla. Ci spazzerà via tutti, decretando la fine del mestiere del fumetto.

Questa prospettiva non turba affatto chi vede con simpatia la crisi dei mezzi di produzione capitalistici, e di conseguenza l’ipotesi di fumettisti costretti a timbrare il cartellino di giorno e a lavorare la notte. Dopotutto, cosa vogliono questi scansafatiche? Quello dei fumetti “non è lavoro vero”. Come si dice, “non è mica come in miniera”.

Secondo queste anime belle, il lavoro artistico, una volta libero dalle catene della produzione capitalistica, si monderà di ogni impurità e di ogni compromesso. E uscirà immacolato dalle mani dell’artista per proporsi al lettore in una mirabile comunione di anime elette.

Questa è una sciocchezza che bizzarramente riacchiappa “a sinistra” la convinzione religiosa (o superstiziosa, fate voi) dell’artista che, ispirato da Dio, non ha bisogno d’altro che ascoltare la Sua voce. Ed è una sciocchezza pericolosa. Pericolosa perché sposta il discorso relativo all’arte sul piano metafisico, verso un’Arte come Verità Rivelata che non ammette critiche, perché non è mica prodotta in serie. È Arte perché sì, e tanto basta. Tutti saranno artisti, basterà proclamare di esserlo. Ma se tutti saranno artisti, la conseguenza – ipocritamente ignorata – è che nessuno sarà artista.

La verità è che non c’è arte senza artigianato. Non c’è arte senza senza l’apprendistato, senza gli errori. Non c’è arte senza il confronto con i mezzi di produzione, con la committenza, perfino con la censura. Non c’è arte senza Classici da emulare o da abbattere. E tutto questo non si può avere – o al massimo si può avere assai raramente – con un’arte a mezzo servizio, praticata nei ritagli di tempo. L’arte è pratica quotidiana. L’arte si impara, giorno dopo giorno.

Ne avevamo già parlato qualche anno fa. Per almeno due decenni (gli anni sessanta e settanta) in Italia sono maturati talenti straordinari. È stato possibile perché l’editoria era così fiorente che consentiva infinite occasioni di lavoro. Chi voleva “fare i fumetti” poteva esordire facilmente. E i talenti avevano la possibilità di crescere e affinarsi attraverso esperienze diverse, trovando infine ciascuno un proprio percorso.

Oggi questa possibilità è ridotta al minimo. Diciamo pure al grado zero.

E quando il fumetto – il fumetto popolare, quello che va in edicola ogni mese – scomparirà dagli scaffali, sarà la fine del mestiere del fumetto in Italia. Il medium fumetto non scomparirà, naturalmente. Rimarrà come hobby da dopolavoro, o come reperto archeologico per paleontologi della cultura e per nostalgici, oppure come fenomeno modaiolo da riproporre ciclicamente come vintage.

Forse – io ne dubito – sarà comunque un fumetto di Alto Livello Qualitativo. Ma non sarà più quella forma d’arte pulsante e vitale che ha inciso nell’immaginario di un secolo.

lunedì 5 ottobre 2009

COVER ME part 2

Al momento di preparare Caravan per l’uscita ci siamo trovati di fronte al problema delle copertine. Noialtri – autori, editore, redattori – eravamo consci della peculiarità di Caravan rispetto alle altre serie bonelliane. Come trasmettere al lettore il senso di questa peculiarità?

Innanzitutto abbiamo scelto di non “disegnare” il logo della testata come al solito, ma di utilizzare un font moderno. Per i curiosi: no, non è quello utilizzato per Jericho (io ve l’avevo detto che Jericho non c’entra niente). Inoltre abbiamo deciso di usare una mappa come elemento grafico, per suggerire l’idea del viaggio. Idea sottolineata perfino dal “bollino” del prezzo, sagomato come un cartello stradale.

Per quanto riguarda le illustrazioni, è apparso subito chiaro che l’approccio tradizionale doveva essere messo in discussione. Intendiamoci, potevamo “barare” mettendo in copertina delle scene d’azione che pure sono presenti nella serie. Ragionando in maniera tradizionale, la cover del numero 1 avrebbe visto Adrian Richards puntare la pistola contro Davide Donati, e una finestra della stanza aperta su un cielo minaccioso.

La cover del numero 2 avrebbe mostrato un motociclista inseguito da elicotteri militari che gli sparavano addosso. Avremmo mostrato la moto che fa zig zag, inclinata su un lato in una sfida alla legge di gravità, e i proiettili che scheggiano l'asfalto a pochi centimetri dalle ruote.

Nella cover del 3 avremmo mostrato gli abitanti di Nest Point che agitavano i pugni davanti ai fucili spianati dei soldati. Oppure - soluzione "texiana" - Lenny che scazzotta i due bulli per difendere Cynthia Newman.

Nella cover del 4 avremmo messo Harold Shawnessy che picchiava sua moglie (ma non Carrie; non metteremmo mai in copertina una scena di violenza su bambini).

In un certo senso, copertine così concepite sarebbero state “giuste”. Avrebbero mostrato scene di tensione e/o di violenza realmente presenti nelle storie. Tradendo però lo spirito della serie: in Caravan non sono le scene di violenza fisica a scandire il racconto. I conflitti che i personaggi affrontano sono per lo più conflitti interiori.

Ci voleva un approccio diverso, quindi. In primo luogo mi assumo la responsabilità di una scelta radicale: non ho voluto armi in copertina. Mai. Nemmeno per quelle storie in cui le armi compaiono e fanno fuoco. Questo per me era un segnale chiaro al lettore: attenzione, qui dentro c’è qualcosa di diverso dal solito.

E anche per questo abbiamo cercato un rapporto di “complementarità” tra le immagini e i titoli delle storie.

Un titolo non è qualcosa di appiccicato su una sceneggiatura giusto per distinguerla dalle altre centinaia che l’hanno preceduta. Purtroppo, spesso lo è. Per necessità, per velocità, e – perché negarlo? – per comodità. Per Caravan abbiamo cercato di sfuggire a questa trappola con dei titoli ragionati, che evidenziassero o il personaggio centrale della storia o un aspetto significativo del racconto.

Il primo titolo ipotizzato per il numero 1 è stato Un giorno a Nest Point. Questo titolo sottolineava l’ordinarietà della situazione spezzata dall’apparizione delle “nuvole strane”. Ma Il cielo su Nest Point mi sembrava un’idea migliore. L’illustrazione avrebbe chiarito subito cosa aveva di particolare questo cielo. (il problema è stato poi decidere chi mettere sotto quel cielo. Ne abbiamo parlato in questo post).

La cover del 2 è stata facile. La figura del motociclista ribelle ci sembrava abbastanza forte di per sé da non dover ricorrere a scene degne di un film di Italia 1 per solleticare i lettori. Emiliano ha disegnato Stagger in direzione opposta alla carovana. Si volta e si guarda indietro con un sorrisetto. “Il ribelle” non si unisce al branco. I wasn’t born to follow, diceva la canzone di Easy Rider. È perfetto. Non c’è bisogno d’altro. Non abbiamo praticamente considerato alternative a questa cover, se non l’idea di usare un’inquadratura leggermente più ravvicinata.

Il numero 3 era difficile. Il titolo cercava di centrare l’aspetto principale della storia. Che non è tanto la discutibile natura della verità ("duttile e plasmabile", dice la dottoressa Peters), quanto la credibilità di chi la enuncia. Specie se è qualcuno che non dovrebbe mentire mai. Come un leader, per esempio. A pensarci bene, un leader è la sua parola. Se la sua parola non è credibile, il leader non è credibile. (Almeno negli Stati Uniti. Come ben sappiamo, da noi è tutta un'altra cosa).

Non si può visualizzare “la parola di un leader”, ma si può visualizzare un leader. Perfino vestendolo normalmente, in giacca e cravatta, si può far capire che è un leader. Emiliano ha scelto una copertina compositiva: azzera lo sfondo (in una scena così “carica” non farebbe che appesantire l'immagine) e mette ai lati le due fazioni, civili e militari; mentre il leader – il sindaco Banks, come capiremo leggendo – viene verso di noi, sollevando la mano come per invitare la gente a seguirlo.

Una possibile alternativa sarebbe stata concentrarci sul momento più drammatico dell'albo, quello di maggiore impatto dal punto di visivo. E non parlo della riapparizione delle nuvole misteriose, ma di quella della ragazza scomparsa, Cynthia Newman. Non abbiamo nemmeno fatto un bozzetto, però: l'idea di mettere in copertina l'immagine di una ragazza coperta di lividi e coi vestiti strappati mi sembrava quasi pornografica.

Un altro bozzetto - questo effettivamente realizzato da Emiliano - vedeva Banks e il colonnello Warren l’uno di fronte all’altro in atteggiamento di sfida, con una inquadratura laterale ripresa leggermente dal basso. Abbiamo scartato questa prova perché, come giustamente ci ha fatto notare Mauro Marcheselli, l’angolazione dal basso era già stata usata il mese precedente. E inoltre, ragionandoci sopra, la sfida tra Banks e Warren non è personale. Banks agisce a nome della cittadinanza. Perciò ci sembrava più giusto mostrare anche i cittadini di Nest Point.

Il titolo del numero 4 è La storia di Carrie, ed è ovvio che la copertina doveva presentare Carrie al lettore. Una prima idea è stata quella di realizzare la copertina dell'albo come se fosse la copertina di un disco di Carrie. Doveva esserci solo Carrie con la sua chitarra. Qualcosa di simile a una cover famosa, quella di Nashville Skyline di Bob Dylan.

Questa soluzione aveva due difetti: era troppo “solare” (e la storia di Carrie non lo è) e sostanzialmente ci diceva solo che Carrie è una cantante.

In seconda battuta ho suggerito a Emiliano di concentrarci sulla fuga di Carrie. La mia idea era mostrare Carrie seduta nella corriera, abbracciata alla sua chitarra, mentre guarda dal finestrino la città che sta lasciando. Emiliano ha osservato che concettualmente l’immagine era giusta, ma "sacrificava" il paesaggio. E, allentando un po’ l'aderenza alla storia, ha proposto di mostrare Carrie che si allontana a piedi dalla sua città.

Trovo questa copertina praticamente perfetta, e non solo perché è un bellissimo disegno, ma perché racconta con una sola immagine la storia di Carrie. Ci dice che Carrie è una ragazza, che suona la chitarra, che si lascia alle spalle la sua città, e che questo – lo capiamo dall’espressione sul suo volto – è un addio. Sullo sfondo, un’auto si avvicina , e dall'inclinazione sembra che proceda a forte velocità, sbandando leggermente. Forse c’è qualcuno che insegue Carrie. Questo non è un elemento presente nella storia (a meno di non considerarlo un simbolo dei ricordi che inseguono Carrie); ma funziona egregiamente, trasmettendo al lettore un senso di inquietudine.

Avete già visto sul retrocopertina del numero 4 la splendida copertina del numero 5. E vi anticipo che vedrete tra qualche mese - forse per la prima volta nella storia della casa editrice – una copertina senza personaggi. Magari ne riparleremo. Ovviamente dopo l'uscita dell'albo, per evitare gli spoiler.

domenica 4 ottobre 2009

COVER ME

Prossimamente cercherò di spiegare come vengono “pensate” le copertine di Caravan.

Prima, però, vorrei spiegarvi quali sono i criteri delle serie “tradizionali” bonelliane; criteri che possono essere riassunti in poche semplici regole:

1) l’eroe deve essere sempre presente nella copertina ed essere riconoscibile;

2) si deve mostrare sempre una situazione di conflitto, di pericolo, o quantomeno di tensione, presente nella storia;

3) l’inquadratura non deve mai essere statica. Evitare per quanto possibile, quindi, il “frontale piatto” e la visione laterale;

4) qualora l’inquadratura fosse statica, si ricorre alla presenza di un’arma per suggerire la situazione di tensione di cui al punto 2;

5) la scena in copertina non deve riprodurre fedelmente una scena presente nell’albo, ma può modificarla anche molto liberamente per evidenziarne gli aspetti drammatici. Ove ciò non fosse possibile, si deve inventare una scena ad hoc. Ad esempio inserendo l’eroe in una scena d’azione che in realtà, dentro la storia, non vede la sua partecipazione.

Naturalmente in copertina non c’è solo un’immagine. C’è anche il titolo della storia. Teoricamente, l’impatto della copertina dovrebbe scaturire anche dal rapporto tra titolo e immagine.

Applicando le regole su elencate, il rapporto fra l’immagine e il titolo della storia oscilla fra due poli opposti.

Al primo troviamo il caso in cui il titolo è esplicativo di per sé. L’immagine funge da illustrazione immediata del titolo, e viceversa: il titolo è leggibile come semplice didascalia dell’immagine. Presi a sé, però, sia il titolo che l’immagine sono autonomi, e ci danno un’informazione precisa sulla storia.

Alcuni esempi qua sotto (potete cliccare sulle cover per vederle ingrandite).

Notate come il meccanismo logico alla base della cover sia lo stesso, ma come possa essere applicato con sfumature diverse.

In Nick Raider c’è un contesto drammatico evocato nella maniera più diretta possibile, cioè con la visualizzazione dello scontro fisico, quello presente tra il criminale e la vittima, e quello imminente tra eroe e criminale.

In Dampyr la situazione è leggermente più sfumata rispetto a quella vista su Nick Raider, data la distanza dell’eroe dal licantropo. Suggerisce più una minaccia che l’imminenza dello scontro.

In Mister No non si visualizza lo scontro diretto tra l’eroe e il cangaceiro del titolo, ma se ne dà una visualizzazione simbolica, con Mister No che impugna il fucile e il volto del cangaceiro che incombe su di lui come uno spettro. Una scelta abile per sottolineare la dimensione quasi mitica del bandito.

Quando c’è lo scontro diretto fra l’eroe e un particolare antagonista, così forte da imprimere il suo marchio alla storia, scegliere un’immagine per la copertina non è difficile.

In altri casi, però, i titoli sono generici (o al contrario troppo specifici) e non possono essere “raccontati” con l’illustrazione. Impossibile, quindi, instaurare un rapporto “forte” tra titolo e immagine. In casi simili il titolo preso a sé è del tutto insignificante per il lettore, e ci si affida esclusivamente all’immagine per comunicare al lettore la tensione insita nella storia.

Ho scelto una mia storia per Dylan Dog che ha un titolo molto particolare; si riferisce non a una situazione drammatica, ma a un concetto (un risvolto inaspettato, la “terza faccia della medaglia”, in una vicenda che sembrava presentare solo due soluzioni). La copertina in questo caso non può “visualizzare” il titolo. È stata quindi scelta un’immagine che non “racconta”, ma che trasmette una sensazione, anticipando all’insaputa del lettore il drammatico finale della storia: ed è mostrata la malinconia dell’eroe messo di fronte alle conseguenze della sua scoperta.

In Zagor il titolo Tenebre è assolutamente vago. Il copertinista ha quindi ampia libertà, ed estrapola dalla storia un momento particolarmente drammatico, con Zagor prigioniero degli indiani (non avendo letto la storia, non so dirvi se nell’albo quella scena si svolga esattamente in quel modo). In questo caso, titolo e immagine sono necessariamente “scollati”.

Anche in Tex il titolo è piuttosto vago, e “racconta” solo l’ambientazione (generica) della vicenda, la sierra. La cover mostra Tex che si accinge a fare fuoco contro dei bandidos messicani. Una scena, in realtà, buona per tutte le occasioni. Anche qui, come per la cover di Zagor, possiamo dire che titolo e immagine viaggiano paralleli.

Attenersi strettamente alle “regole d’oro” è rischioso (non solo per la Sergio Bonelli Editore). E a volte significa fatalmente ripetere sempre le stesse tre–quattro situazioni canoniche, come mostra uno spassoso thread sul forum di Nathan Never. Ma è anche vero che ogni regola ammette le sue eccezioni. Come quelle che vedete qui sotto.

Una copertina dove l’eroe non è immediatamente riconoscibile, una dove non c’è una situazione di pericolo, e infine una che di avventuroso non mostra proprio niente.

Anche questo è Bonelli. E lo è anche Caravan. Che ignora (chiaramente per motivi precisi, non certo per capriccio) tutte le regole di cui abbiamo parlato.

sabato 3 ottobre 2009

SI PARLA DI CARAVAN

Carlo Scaringi parla di Caravan nel sito di afNews, facendo simpaticamente il verso a quei lettori appassionati di meteorologia che si chiedono dove sono finite le "nuvole strane".

E si parla di Caravan anche nel sito de La Repubblica. La manifestazione di Romics in simbiosi con la rivista XL promuove un sondaggio per votare l'autore dell'anno e il personaggio a fumetti dell'anno. Caravan ha due nomination, rispettivamente per il sottoscritto e per il giovane Davide. Si vota su questa pagina (autori) e su questa (personaggi).