Due letture che mi hanno accompagnato in quest’ultimo scampolo di estate.
The Devil’s Guide to Hollywood di Joe Eszterhas (per i distratti: lo sceneggiatore di Flashdance, Basic Instinct e altre cose) è semplicemente una raccolta di aneddoti su Hollywood. Quasi tutti bizzarri, divertenti, alcuni realmente illuminanti, ma nel complesso niente di indispensabile (a meno che non vi interessi sapere che Eszterhas è stato a letto con Sharon Stone, perché l’autore non manca di ricordarcelo continuamente).
Di Eszterhas è molto meglio Hollywood Animal, autobiografia avvincente e a tratti – non ci credereste mai – addirittura toccante. Ma non è questa la mia seconda lettura estiva: è Bambi vs. Godzilla, una raccolta di brevi saggi di David Mamet, commediografo, sceneggiatore e regista sulla breccia da circa trent’anni (citando alla rinfusa: Il verdetto, Homicide, La casa dei giochi, Americani). È una lettura decisamente più “densa”, e a tratti non facilissima se non avete una buona conoscenza dell’inglese.
Il libro di Mamet offre molti spunti per riflettere, e praticamente ognuno dei saggi che lo compone meriterebbe un commento. Mi limito a due dei primi, intitolati rispettivamente Producers e The development process.
Mamet parte da una constatazione molto banale: ha contato sulla locandina di un film i nomi di diciotto produttori. Da qui prende le mosse per arrivare a dire una verità che si ha paura di dire a voce alta. E cioè che Hollywood i film non si fanno più per gli spettatori. Si fanno per i produttori.
Cosa significa? Significa che gli studios sono diventati colossi economici così giganteschi da capovolgere completamente una dinamica di produzione che fino a una ventina d’anni fa era molto lineare: il produttore rischiava dei soldi – soldi propri – per fare un film e avere un ritorno economico (che nella maggior parte dei casi otteneva). Il produttore aveva interesse a
a) fare film che ottenessero grandi incassi. Più pubblico li vedeva, maggiore era l’incasso.
b) fare molti film. Più film, più soldi.
Elementare, no?
Bene, questa dinamica, almeno per quanto riguarda gli studios, è cambiata. Il produttore non è più “quello che ci mette i soldi”, ma quello che raccoglie i finanziamenti. Negli studios il produttore è il primo anello di una catena composta da tutti quelli che si occupano, a vario titolo, dello sviluppo del progetto. Una catena che prima di arrivare agli anelli decisivi, quelli che materialmente fanno il film – cioè regista, attori, maestranze – comprende una lunghissima sequenza di co–produttori, produttori esecutivi, supervisori, assistenti, assistenti degli assistenti, etc.
Gli studios sono diventati come dinastie monarchiche. Centri di potere che, proprio come le famiglie reali, fanno proliferare nella corte quelli che Mamet definisce senza mezze misure “ciambellani, cortigiani, sicofanti”. Individui che legano le proprie fortune non a quelle dei film prodotti, ma a quelle dei regnanti. Regnanti che ogni cortigiano ha interesse a blandire, lusingare, assecondare, servire supinamente.
Di qui il risultato paradossale: il film non si fa più per il pubblico. Il film si fa per mettere in piedi un meccanismo che distribuisce denaro a tutti gli anelli della catena… e non necessariamente a quelli indispensabili. In effetti, per produttori associati ed executives vari non è nemmeno indispensabile fare arrivare il film nelle sale. L’importante è essere pagati per il lavoro che svolgono. Perfino se lo svolgono male. O fanno finta di svolgerlo. O lo fanno svolgere agli altri. A loro interessa il development, lo sviluppo del progetto, non tanto il progetto in sé. Più lungo e laborioso è il development, più il cortigiano può attingere ai forzieri di corte. Ed ecco perché i costi dei film crescono a dismisura. E crescono anche perché si fanno meno film, dato che agli executives va bene così: ci sono più soldi a disposizione per ogni singolo progetto.
E i film prodotti da questa bulimia sono quello che vediamo: blockbuster oversize, ripetitivi, insulsi, fatti solo per creare un brand o per sfruttarne uno già esistente.
Il quadro che dipinge Mamet a tratti fa sorridere, ma in realtà è agghiacciante, e spiega chiaramente il baratro creativo in cui è sprofondato il cinema hollywoodiano. D’altronde Peter Biskind, nell’eccellente Easy Riders Raging Bulls, aveva già individuato alla radice del problema il cambiamento del meccanismo produttivo al crocevia fra il decennio degli anni settanta e gli ottanta.
La lotta della creatività genuina contro l’intrattenimento da luna park, non solo a Hollywood, è una lotta impari. È Bambi contro Godzilla. Mamet non indica una via d’uscita nel suo libro. Ma almeno la sua filmografia – da La casa dei giochi fino alla serie televisiva The Unit – è quella di uno che non ha cessato di combattere.
6 commenti:
Ammiro Joe (il cognome è uno sciogli-lingua) perché è andato a letto con Sharon Stone; scherzo, lo ammiro per il suo lavoro. Stessa cosa per Mamet, di cui ricorderei (così, al volo) anche Il colpo. D'accordissimo sul ragionamento in merito alla figura del pruduttore e al processo produttivo in sé, solo non giudicherei così negativamente i blockbuster. Come in tutte le cose ci sono quelli belli e quelli brutti, ma soprattutto è grazie a loro, al guadagno che fruttano alle case produttrici, che si possono realizzare film più impegnati (se proprio vogliamo suddividere il cinema in categorie). In Europa il cinema è considerato una forma d'arte, in America è un'industria, una perfetta catena di montaggio in grado di sfornare ANCHE blockbuster troppo spesso sottovalutati.
Ogni cosa per esistere ha bisogno del suo contrario, non c'è verso, è così da sempre e sarà sempre così; per quanto si voglia connotare negativamente "l'intattenimento da luna park" esso è necessario alla "creatività genuina" tanto quanto quest'ultima è necessaria al primo.
Alle parole "baratro creativo" ho avuto un sobbalzo: lo sostengo da anni, e la prova è che i film con un plot inedito ormai si contano sulle dita di una mano monca. Ormai i grandi film sono sempre "tratti da...". Fumetti, libri, favole, saghe, tutto viene digerito dall'industria cinematografica. Ma che fine hanno fatto i soggettisti del cinema? Sono una specie in estinzione? Proliferano gli sceneggiatori, aumenta il numero dei registi e dei produttori... ma gli sceneggiatori abbandonano il cinema e migrano nella produzione dei serial. Il che da una parte è anche un bene perchè abbiamo telefilm di buon livello, con buone e intriganti idee.
Filippo, non sono contro i blockbuster per partito preso. Un film può essere uno spettacolo fracassone, ma anche essere scritto con intelligenza e humour (mi vengono in mente "Trappola di cristallo" e il primo "Arma letale"), e tenere ben presente la differenza con l'intrattenimento da luna park.
Non sono nemmeno contro i luna park per partito preso (anzi, mi piacciono e mi ci diverto), a patto che nessuno mi spacci le attrazioni dei luna park (o la loro variante casalinga, i videogiochi) per narrativa.
Gianluca, mi permetto di correggerti: non è un problema di adattamenti. Tieni conto che Stanley Kubrick non ha mai fatto un film da un soggetto originale. E ci sono romanzi e racconti, non necessariamente grandi classici, che sono stati adattati un numero N di volte.
Ho rivisto da poco "La pericolosa partita" (1932), e controllando su IMDB ho visto che da quel racconto sono stati tratti altri sei film. Sette, contando quello non dichiarato di John Woo con "Senza tregua". (In realtà gli adattamenti sarebbero otto, contando quello di Zagor ;-).
Quindi, non è un problema di soggetti non originali, perché di adattamenti se ne sono sempre fatti, e a vagonate. Il problema risiede in una struttura produttiva incancrenita da tempo. E comunque, come dici giustamente, ci salva la tivù. Forse perché è una struttura più elastica, non so. Fatto sta che ora i talenti sono là, per nostra (e loro) fortuna.
Ok Michele, sei stato chiaro e concordo in pieno.
Beh... Mamet ha scoperto l'acqua calda.
Purtroppo oggi è proprio così che va la cinematografia negli states e non solo.
Finchè i soldi in gioco sono i tuoi è un conto e ci tieni a non buttarli dalla finestra. Quindi, che ci si doverva aspettare?
Saluti
Cecco
Beh, Cecco, Hollywood è sempre stata terribile, e "Hollywood Babilonia" non è solo il titolo pittoresco di un libro. Però Mamet ha conosciuto un'epoca in cui in quella Babilonia era possibile fare qualcosa di buono (un'epoca nemmeno così remota, in fondo), ed è normale che si indigni.
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