Va bene, il viaggio sta per cominciare, e se volete salire a bordo un po’ in anticipo siete i benvenuti.
Probabilmente su Caravan sapete già qualcosa. Magari quello che è scritto nel sito della Sergio Bonelli Editore, o nello spazio anteprime di uBC.
Qui scoprirete qualcos’altro ancora. E non tanto sulle dodici storie che leggerete nella serie, ma su quello che c’è “a monte” di quelle storie (le idee, gli spunti, le soluzioni scartate) e su quello che c’è “intorno”: coincidenze, riflessioni a posteriori, digressioni.
E adesso, per cominciare proprio dall’inizio, vorrei raccontarvi che Caravan è nato da una canzone di Bruce Springsteen, Seeds (semi). Quando la sentii per la prima volta (nel 1990 o giù di lì) non capii il testo, ma solo qualche frase: c’era una famiglia che dormiva in macchina, in fuga da qualcosa… un poliziotto batteva col manganello sul vetro dell’auto ferma, dicendo: “Move along, move along”. Sembrava che su quella famiglia incombesse un’apocalisse.
Avevo fantasticato sulla possibilità di trarre un racconto da quelle immagini. Da cosa fuggiva quella famiglia? Da una fuga radioattiva? Dalla terza guerra mondiale? O forse dai marziani? Ma Nathan Never era agli inizi, e l’idea della famiglia in fuga rimase in un cassetto. Mai avrei immaginato di tirarla fuori dopo qualcosa come quindici anni.
E a quel punto, una volta deciso di riaprire quel famoso cassetto, cercai il testo di Seeds per vedere di che cosa parlava effettivamente. E feci una scoperta.
SEMI (1986), Bruce Springsteen
Un uomo aveva scoperto un grande fiume nero,
e spese tutti i suoi soldi per fare un buco nel terreno,
mandò una trivella di ferro giù, giù fin nel profondo
ed ecco perché adesso vivo sulle strade di Houston.
Ho caricato moglie e figli all’arrivo dell’inverno
e siamo venuti qui al sud con le tasche piene soltanto di speranza,
ma ci hanno detto, “ci spiace, adesso è tutto finito”.
Ci sono uomini accovacciati sui binari del treno
e il fischio dell’Elkhorn Special è così forte da spettinarmi
hanno eretto delle tende sull’autostrada in questo sporco chiaro di luna
e io non so dove dormirò questa notte.
Siamo parcheggiati nel deposito del legname, a congelarci il fondoschiena,
i ragazzi seduti dietro hanno una tosse micidiale,
io dormo davanti con mia moglie,
quando un manganello batte sul parabrezza nel bel mezzo della notte,
dice: “Circolare, amico, circolare.”
C’è una grande limousine nera luccicante,
e per te non c’è niente davanti e più niente alle tue spalle;
dopo che ti hanno steso, quante volte ancora puoi rialzarti?
Giuro che se avessi ancora una goccia di saliva
la sputerei sulla tua cromatura scintillante,
e a casa ci rimanderei voialtri, tutti quanti.
Quindi se vuoi lasciare la tua città, là dove soffia il vento del nord
per andare giù al sud dove scorrono fiumi di dolce soda,
pensaci due volte, è meglio, amico mio,
meglio che ti compri subito un fucile e che lo usi,
perché quaggiù non troverai niente,
soltanto semi soffiati sull’autostrada dal vento del sud.
Nel 1984 la crisi petrolifera aveva colpito duro gli Stati Uniti. E, in concomitanza con la crisi del mercato immobiliare, aveva innescato anche il fallimento a catena di una serie di banche, a cominciare dal clamoroso crack della Continental Illinois di Chicago nel 1984 fino a quello della First City Bancorp di Houston, nel 1988. Nel Texas, nove delle dieci banche più grandi fallirono.
A metà degli anni ottanta, nella sola Houston 150.000 persone si ritrovarono all’improvviso senza lavoro. E nel frattempo l’industria del petrolio aveva attirato laggiù centinaia di famiglie di lavoratori. Gente che si era lasciata tutto alle spalle per emigrare al sud in cerca di lavoro; e ora si trovava, letteralmente, sulla strada, senza un soldo, senza una casa a cui tornare e senza un posto dove andare. Era questo che Bruce Springsteen raccontava, e io non avevo capito nulla. Seeds non parlava di minacce aliene né della terza guerra mondiale. Quei semi “portati dal vento sull’autostrada” erano nient’altro che semi. Ma per quanto riguarda il sottoscritto, sono germogliati in un’idea.
6 commenti:
Mi ricorda molto la storia di Guccini che cavò fuori "Noi non ci saremo" da una sua interpretazione apocalittica di "Mr. Tambourine Man" di Dylan.
Tommaso.
Quindi nel 1984 la situazione non era così diversa che quella del 2009...
Capita anche a me, talvolta, di dare interpretazioni fantasiose a canzoni che non capisco bene.
La prossima volta che mi capita, me le segno, non si sa mai...
E ovviamente, in bocca al lupo per Caravan
fondamnetalmente, mi piacerebbe trovare la "tua" versione di caravan, non il trafiletto pubblicitario sul sito della sergio bonelli, ma le parole di un autore, magari di parte, ma appassionanti e che ci/mi facciano appassionare e avvicinare a questa nuova miniserie.
Grazie
Luca
Grandissimo, Michele. Ancora "on the road", tanto per restare in tema. L'ispirazione di Springsteen, così come quella di Woody e poi quella di Dylan , attinge a temi di una realtà sociale americana che racconta di storie di umili, poveri, senza dimora,ma comunque speranzosi nel sogno "americano", così come è anche mirabilmente raccontato nei romanzi di Steinbeck, che adoro.
Vernè, adoro Steinbeck (l'ho omaggiato esplicitamente anche su Dylan Dog, facendo vedere il finale di "Uomini e Topi"). Ovviamente Caravan parla di tutt'altra realtà, anche se qualche riferimento a Guthrie lo troverai.
Luca, quello che tu chiami "trafiletto pubblicitario" è ovviamente concordato tra editore e autore, quindi è come se l'avessi scritto io. D'altronde, mai svelerei la *mia* visione di Caravan. Sarebbe come imporla ai lettori. E credo (spero) che siano le storie a far appassionare i lettori, non le parole di un autore (che potrebbe essere, perché no, anche più abile come imbonitore che come autore...).
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