Ci sono lettori di fumetti che del fumetto sanno tutto. E quindi conoscono il vero motivo della crisi: “la mancanza di coraggio nel proporre qualcosa di nuovo” (da parte del fumetto popolare, ovviamente. Per quanto riguarda le graphic novel, un autore di graphic novel è esentato dal confronto col passato, noblesse oblige).
Questa dichiarazione è molto tranquillizzante, perché addita alla pubblica opinione un delitto e i suoi colpevoli. Un po’ come dire che è colpa dei comunisti. O dei clandestini che ci tolgono il lavoro.
Peccato che “qualcosa di nuovo” non sia sinonimo di “qualcosa di successo”. Ed è difficile pensare che arrivi una novità di dimensioni tali da risolvere la brutta situazione del fumetto italiano. Anzi, non è neppure scontato che una novità ripaghi lo sforzo fatto per elaborarla.
Un esempio veloce: il fiorire delle riviste a fumetti tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta. Costituivano indubbiamente una novità rispetto al passato e presentavano opere interessanti. Ma il boom delle riviste è durato poco. E gli autori lanciati dalle riviste e tuttora in attività si contano, mi pare, sulle dita di una mano.
Ma l’esempio più clamoroso è forse quello di Ken Parker. Al suo apparire nelle edicole (1977) Ken Parker presenta novità notevoli. Nel contenuto: estremo realismo delle situazioni, attenzione ai risvolti sociali ed economici della Storia, aggancio a tematiche contemporanee. Nella forma: contaminazioni col linguaggio cinematografico, “ripulitura” dei dialoghi da artificiosità tipiche del fumetto, allargamento (o sfondamento) della griglia delle vignette, funamboliche variazioni di registro narrativo dal dramma all’umorismo.
Con tutto ciò, Ken Parker non ha un grande successo di pubblico, e dura appena cinque anni.
Il successo arriderà a Dylan Dog (1986), uno dei pochi personaggi italiani destinato a sfondare le barriere del medium fumetto e a diventare fenomeno di costume.
Della novità di Dylan Dog rispetto ai suoi predecessori (quello immediato è Martin Mystère, del 1982) si è parlato abbondantemente. Ma non si è parlato altrettanto della sua continuità col passato.
Dylan Dog infatti ripropone una tipologia di personaggio tradizionale. Quello di Dylan e Groucho è, a ben guardare, l’abbinamento eroe–spalla di Martin Mystère e Java, che a loro volta riproponeva quello di Zagor e Cico. Che riproponeva quello di Tex e Kit Carson.
Quanto alla scrittura, quella di Sclavi è molto simile a quella del suo mentore Alfredo Castelli: dialoghi brillanti, scanditi in maniera impeccabile. Ma non è visibile uno scarto macroscopico tra i due stili, come invece avveniva per i dialoghi “realistici” di Berardi che si contrapponevano a quelli tradizionali di Tex, o perfino a quelli più “moderni” della Storia del West di D’Antonio.
Sclavi, tra l’altro, continua a usare i balloon di pensiero (usati da Berardi col proverbiale contagocce e poi progressivamente abbandonati). E fornisce a Dylan la sua esclamazione caratteristica: “Giuda ballerino!”, perfettamente in linea col “Peste!” di Tex e con i “Diavoli dell’inferno!” di Martin Mystère.
Infine, il lavoro di Sclavi sulla griglia bonelliana è molto meno dirompente di quello di Berardi e Milazzo su Ken Parker. Vero è che in Dylan Dog compare qualche sequenza di taglio cinematografico: ma Sclavi appare molto meno interessato a lavorare sulla griglia rispetto agli autori di Ken Parker, e perfino rispetto a Gino D’Antonio sulla Storia del West.
Tiziano Sclavi era un fan di Tin Tin, e non di Watchmen (che all’epoca non aveva nemmeno letto). Pochi lo sanno, ma a Sclavi si deve addirittura, alla fine degli anni ottanta, l’elaborazione di un “pentalogo” redazionale: cinque regole per fissare uno schema di impaginazione che stabiliva il numero (minimo e massimo) e la disposizione delle vignette sulle tavola. Schema che si sarebbe dovuto applicare a tutte le testate, da Tex a Dylan Dog, per renderle graficamente omogenee. Con l’avvento di Nathan Never l’idea di imporre il “pentalogo” fu abbandonata. (Con nostro grande sollievo, mi permetto di aggiungere).
Con ciò non voglio dire che Dylan Dog non era “nuovo” (gli elementi di novità c’erano eccome), ma che non era quella novità assoluta, la Creazione dal Nulla, il Big Bang che molti pensano. E voglio dire che la novità ben più dirompente (più “cercata”, mi viene da dire) di Ken Parker non ha avuto lo stesso strepitoso successo.
La realtà è che proporre delle novità è spesso, se non proprio facile, almeno non troppo difficile. Ben altra cosa è proporre novità che abbiano grande successo, e che influenzino la produzione successiva apportando cambiamenti significativi.
Ma il grande successo - è banale dirlo, ma diciamolo - non è mai programmabile a tavolino; né per la novità assoluta né per l’opera tradizionale che sfrutta formule già consolidate.
Il Dark Tex sognato da molti non sortirebbe affatto la rivoluzione operata su Batman da Frank Miller con Dark Knight. Servirebbe solo ad allontanare da Tex gran parte dei suoi lettori tradizionali e tradizionalisti. O, nel migliore dei casi, costituirebbe un caso eccezionale, un unicum che mai e poi mai potrebbe modificare l’essenza della serie mensile.
Per quanto mi riguarda, continuo a sostenere che non ha senso cercare paralleli tra le produzioni fumettistiche delle varie nazioni, nemmeno quelle occidentali (il Giappone non è nemmeno un altro pianeta. E' un'altra galassia). Le differenze sorpassano di gran lunga le somiglianze: nei contenuti, negli stili, nelle modalità di produzione, nel contesto culturale e sociale.
La crisi del fumetto italiano ha diverse cause, non una generica “mancanza di qualcosa di nuovo”. E uscire dal tunnel – ammesso che sia possibile – richiede molte manovre, da effettuarsi con le marce basse e con la dovuta calma.
Difficile confidare in un miracolo. E poi, oggi i miracoli li fanno solo i presidenti del consiglio, no?